In piazza per le stragi di profughi: “Noi non dimenticheremo”

di Emilio Drudi *

«Noi non dimenticheremo. Non dimenticheremo i nomi e le storie dei giovani massacrati ad Asmara o nel Gash Barka come in altri eccidi. Non dimenticheremo la dittatura di Afewerki che se ne è resa responsabile e chi la sostiene, anziché schierarsi dalla parte delle vittime. Non dimenticheremo perché parliamo a nome di tutti quei morti e dei loro familiari rimasti in Eritrea, che non possono parlare e che sono umiliati, irrisi dalle versioni di comodo costruite dal regime per occultare le sue colpe, con la complicità o l’assenso dei tanti, troppi che in Italia e in Europa fingono di non vedere e di non sapere. E parliamo, versiamo lacrime, chiediamo verità e giustizia per tutti i profughi uccisi alle frontiere o nei campi di detenzione, perduti nel deserto o sommersi in mare, nell’indifferenza dei tanti, troppi che in Italia e in Europa preferiscono voltarsi dall’altra parte».
Nebay, segretario del Coordinamento Eritrea Democratica, non ha usato mezzi toni nella manifestazione che la diaspora ha organizzato nel cuore di Bologna, di fronte al Palazzo di Re Enzo, per i ragazzi fucilati in questi giorni ad Asmara e al confine con il Sudan, senza dimenticare i profughi uccisi in Libia e alla frontiera tra Siria e Turchia. Erano in tanti ad ascoltarlo, davanti a una sagoma dell’Eritrea tracciata sul selciato con una lunga catena d’acciaio, a significare come la dittatura imprigioni e insanguini il paese ormai da 25 anni. Si percepiva, in tutti i presenti, un senso di umana pietà per le vittime ma anche una chiara, forte denuncia politica: contro il governo di Asmara e, insieme, contro la scelta dell’Unione Europea di “recuperare” il regime, facendolo uscire dal lungo isolamento internazionale in cui era stato confinato da tutte le democrazie. Una scelta perseguita con ostinazione da Bruxelles negli ultimi due anni e sottolineata con la decisione di confermare, appena due giorni dopo le ultime stragi, un nuovo stanziamento di 175 milioni di euro in favore della dittatura. Nonostante la condanna inappellabile formulata dalla Commissione d’inchiesta dell’Onu che, con il rapporto reso pubblico nel giugno 2015, ha evidenziato la violazione sistematica dei diritti umani in Eritrea e, per di più, in contrasto con la durissima risoluzione con cui l’Assemblea di Strasburgo ha chiesto quanto meno di sospendere quei finanziamenti.
“Soldi, milioni di euro – hanno detto in tanti alla manifestazione di Bologna – che ribadiscono la complicità politica dell’Europa e dell’Italia nel massacro di decine di giovani. Una strage che va avanti da anni e che dall’inizio del 2016, anzi, sembra aver avuto un’impennata, con quasi 40 morti ammazzati dai miliziani e dalle forze di sicurezza al servizio proprio di quelle dittature alle quali l’Unione Europea, con la sua politica di chiusura e respingimento, vuole riconsegnarli”. E’ opinione diffusa tra le comunità della diaspora, insomma, che i tanti ragazzi uccisi mentre tentavano di scappare, da gennaio a oggi ma in particolare nelle ultime settimane, siano vittime, oltre che delle fucilate e delle raffiche di mitra della polizia di regimi come quello eritreo, libico o turco, anche dell’intesa sottoscritta ultimamente tra l’Unione Europea e la Turchia, degli accordi di Malta (11 novembre 2015), del Processo di Khartoum (novembre 2014), del Processo di Rabat (2006), dei trattati bilaterali sul controllo dell’immigrazione stipulati tra singoli Governi europei e i vari Stati dell’Africa settentrionale, dall’Egitto al Marocco. In una parola, vittime sì del fuoco spietato che li ha abbattuti ma anche delle barriere fisiche e normative che la Fortezza Europa ha eretto di fronte alla loro disperazione, intrappolandoli tra la propria indifferenza egoista che ne ignora la richiesta di aiuto e le situazioni estreme (guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, carestia, fame e miseria endemiche) che li hanno costretti a fuggire. “Costretti a quella fuga per la vita percorsa ormai da milioni di donne e di uomini ma che per loro è diventata un cammino di morte”, ha detto Selam, una ragazza eritrea di seconda generazione, figlia di rifugiati della prima diaspora.
Da gennaio ad oggi, in effetti, c’è stata una escalation impressionante: solo negli ultimi giorni si sono registrate almeno 20 vittime. Il caso che ha destato più sensazione, portando alla manifestazione di Bologna, è il massacro di Asmara, dove il tre aprile undici giovanissimi militari sono stati uccisi e numerosi altri feriti mentre tentavano di disertare in massa, per poi fuggire dall’Eritrea come profughi. Secondo quanto hanno potuto ricostruire diversi media legati alla diaspora, questi soldati, tutti reclute arruolate da pochi mesi, erano su un convoglio dell’esercito diretto ad Assab, assegnati al cantiere di lavoro della nuova strada per Massawa. Li hanno massacrati, in due fasi, i miliziani della scorta, che avevano l’ordine di sparare a vista contro ogni tentativo di ribellione. I primi due sono stati abbattuti nel sobborgo di Mai Temenai, alle porte di Asmara, pochi istanti dopo essere saltati giù dal loro camion. Sembrava un tentativo di diserzione occasionale, invece doveva esserci un piano concordato tra i coscritti prima della partenza. Infatti, alcuni chilometri più avanti, nella zona del mercato di Asmara, dove è più facile confondersi tra la folla, c’è stata una fuga collettiva, grazie anche all’aiuto di amici e familiari delle reclute presenti sul posto, evidentemente preavvertiti. Immediata e violenta la reazione della scorta: quattro dei fuggiaschi sono rimasti a terra, colpiti a morte dalle raffiche; altri cinque sono spirati dopo il ricovero in ospedale. Almeno 18 i feriti tra i quali, a quanto pare, anche dei civili.
Il giorno dopo, 4 aprile, un altro massacro, sempre in Eritrea. Questa volta alle soglie del Sudan, nella regione del Gash Barka, dove – secondo quanto denuncia la diaspora – le guardie di frontiera avrebbero fucilato cinque profughi. Scarni i particolari dell’eccidio. I cinque, tutti originari di Asmara, pare siano stati sorpresi dalla polizia mentre tentavano di varcare la linea di confine. Sarebbe stata quasi una esecuzione a freddo: fucilati in gruppo quando ormai non potevano più fuggire. Sembra la replica della strage di 13 ragazzini, uccisi e fatti sparire in una fossa comune dai miliziani del regime nel settembre del 2014, quasi nella stessa zona: un eccidio di cui non si è avuta notizia fino a che non è stato scoperto e denunciato, tre mesi dopo, dal padre di tre delle vittime.
Dall’Eritrea alla Libia. Anche qui si continua a sparare per uccidere. Il primo aprile, a Zawia, quattro profughi sono stati trucidati e almeno 20 feriti a raffiche di mitra da parte delle forze di sicurezza, durante un tentativo di evasione in massa dal centro di detenzione di Al Nasr, un lager dove sono rinchiusi oltre 1.200 migranti in condizioni disumane e dove tortura, maltrattamenti e lavoro forzato sono la norma. Il governo di Tripoli, da cui dipende il campo, non ha dato notizia della strage: l’eccidio – come ha riferito Repubblica – è stato denunciato il 7 aprile da funzionari della missione Onu in Libia. Vittime e feriti sono quasi tutti sub sahariani.
Infine, la Turchia, dove negli ultimi quattro mesi la polizia non ha esitato ad aprire il fuoco, abbattendo almeno 16 profughi siriani, mentre tentavano di varcare di nascosto il confine. Lo ha denunciato il 31 marzo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, citando le testimonianze di un ufficiale di polizia siriano e di un “passatore”, sempre siriano ma residente in Turchia, che più volte ha favorito il passaggio oltrefrontiera di migranti in fuga dalla guerra. Tra le vittime, anche tre ragazzini.
Il rapporto dell’Osservatorio sull’uso “facile” di mitra e fucili da parte delle forze di sicurezza di Ankara contro i rifugiati, trova indirettamente conferma in una relazione di Amnesty International secondo la quale – come ha riportato il quotidiano spagnolo El Diario – nei mesi di gennaio e febbraio di quest’anno gli ospedali della zona di Azaz, in Siria, hanno ricevuto una media di due civili al giorno colpiti da proiettili in modo più o meno grave. Si tratterebbe, dunque, di decine di feriti, profughi sorpresi mentre tentavano di varcare la linea di frontiera, soprattutto all’altezza di Kilis, accompagnati da trafficanti di uomini. Anzi, c’è un precedente ancora più tragico e pesante: almeno 17 profughi uccisi dalla polizia turca e numerosi altri feriti, sempre lungo il confine con la Siria, tra il mese di dicembre 2013 e il mese di agosto 2014. E’ quanto emerge da un altro rapporto di Amnesty International che, pubblicato nel dicembre 2014, è stato rilanciato da El Diario in occasione del dossier reso noto dall’Osservatorio Siriano per i diritti umani il 31 marzo. La zona della strage è in particolare la fascia di territorio intorno alla città siriana di Al Derbasiya e alla città frontaliera turca di Senyurt. I feriti sono stati trasportati anche nei centri medici di Amudah, Qamishly e Derek.
“Tutte queste stragi non possono non pesare sulla coscienza dell’Europa”, ha protestato con forza Abraham, rifugiato in Italia da quasi sette anni. Fa riferimento, in particolare, ai contributi elargiti di recente ad alcuni Stati della fascia orientale dell’Africa. Nel contesto del Processo di Khartoum, circa 40 milioni sono stati destinati al miglioramento della sicurezza delle linee di frontiera. Ovvero: servono, in pratica, a finanziare anche la polizia di un dittatore come Al Bashir, in Sudan, accusata dalla diaspora eritrea di numerosi, gravi episodi di complicità e collusione con i trafficanti di uomini e di ricattare i rifugiati con la minaccia di riconsegnarli al regime di Asmara dal quale sono scappati. E, nella stessa Eritrea, a rafforzare le milizie di Isaias Afewerki, le quali, su ordine della dittatura, sparano a vista contro i profughi in fuga e sono responsabili di eccidi come quelli denunciati in questi giorni ad Asmara e nel Gash Barka. “Sembra quasi un invito a bloccare i profughi a qualunque costo – ha insistito Abraham – Il tempo però lavora a nostro favore. Non sappiamo quando e come, ma il regime è destinato a cadere e allora ciascuno dovrà assumersi le proprie responsabilità. Ci sarà sicuramente una resa dei conti. Anche per chi ha aiutato la dittatura”.

*da www.buongiornolatina.it