Il richiamo dell’ambasciatore italiano in Egitto (per consultazioni), la minaccia di ritorsioni nel campo del turismo, della cooperazione universitaria e quella di investire l’Unione Europea dello stato di empasse in cui si trovano oggi le relazioni fra i due paesi vanno analizzate con attenzione perché da quanto accadrà nei prossimi mesi potranno determinarsi scenari diversi.
Proviamo a selezionare i temi in esame cercando di mettere ordine in un caos favorito dal ruolo, non trasparente di parte della stampa mainstream.
Verità e giustizia per Giulio Regeni
Il punto di partenza è questo. Al di là delle valutazioni politiche che si possono dare al governo italiano, alcune prese di posizione, seguite allo smacco di vedersi pedinati i propri investigatori, negato il materiale richiesto relativo al lavoro svolto dalla procura egiziana, sentirsi serenamente dire che i tabulati relativi al cellulare del giovane ricercatore e ai colloqui avuti con i suoi amici sono riservati per tutela della privacy, non è accettabile da istituzioni già, per altre e meno nobili ragioni, in crisi di consenso. Il Presidente del Consiglio italiano deve portare a casa risultati tangibili su questa orrenda storia pena l’ulteriore perdita di credibilità. Si tende a tener separati per quanto possibile il piano giudiziario, circoscritto alla vicenda, a quello delle relazioni economiche e politiche. L’Egitto è un partner importante dal punto di vista economico per l’Italia e l’Egitto di Al Sisi è importantissimo per il ruolo che gioca nello scacchiere mediorentale. Argine ai Fratelli Musulmani ( ergo agli islamisti) fondamentale per la situazione che si va determinando in Libia ( il governo di Tobruk e il generale Haftar sono la longa manus egiziana in quel paese) e importante anche per le preziose relazioni che il governo egiziano mantiene con Israele. Quindi la real politik europea dovrà tenere conto di quelle italiane. Il plurale non è un refuso perché l’Italia dovrà contemporaneamente non mettere a rischio gli affari che tante aziende stanno conducendo con l’Egitto, non indebolire la propria posizione sul fronte libico ma non può neanche permettersi di tollerare gli affronti nella vicenda Regeni. Da notare comunque che i margini di ambiguità persistono, non basta il non voler consegnare i tabulati alla magistratura e pretendere invece di avere gli elementi di inchiesta raccolti dalla Procura di Roma, non bastano le continue provocazioni, da ultimo l’arresto dei parenti dei 5 uomini uccisi perché accusati di rapire “cittadini stranieri”. I parenti giuravano sull’innocenza dei propri cari e sono stati tratti in arresto per offesa alle istituzioni. I loro congiunti sono stati uccisi, uno certamente con un colpo di grazia, altro che scontro a fuoco. In casa di uno sono stati ritrovati i documenti e altri beni di Giulio Regeni mischiati a oggetti che nulla avevano a che fare con lui. Da ultimo, il ministro degli Esteri egiziano ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna comunicazione rispetto al richiamo dell’ambasciatore italiano. Prudenza italiana o gioco delle parti?
Un paese sicuro?
Per il ministro degli Affari Esteri, Paolo Gentiloni, l’Egitto non è più da considerarsi “paese sicuro”. Ma per chi? Ovviamente per i turisti e per i ricercatori italiani che saranno, fino a quando le indagini non avranno fatto passi avanti, considerati paesi in cui è consigliato viaggiare o in cui sarà possibile andare a perfezionare i propri studi. Ma resterà paese sicuro per quanto riguarda gli accordi di riammissione? L’Italia ha stipulato negli ultimi 20 anni 28 accordi bilaterali con paesi in materia di immigrazione. Accordi molto simili fra loro che in pratica garantivano e garantiscono tutt’ora corsie preferenziali nei rapporti economici, quote di cittadini immigrati da far entrare regolarmente laddove l’Italia ne ravvisi la necessità, in cambio della disponibilità a riammettere, con procedure rapide, coloro che risultano “indesiderati”, la cui presenza non è insomma conforme ai titoli di soggiorno necessari. Con l’Egitto tali accordi si stipulano molto presto ma all’inizio faticano a divenire operativi. Un testo stringente viene firmato il 9 gennaio 2007, in pieno governo Prodi (centro sinistra) e firmato dall’allora vice ministro Ugo Intini. Sarà alla base delle modalità con cui, durante le “primavere arabe” verranno rimpatriati migliaia di cittadini egiziani fuggiti dalle grinfie di un regime morente che stava per essere “degnamente” sostituito. Nel 2015, al 15 settembre erano 487 i cittadini adulti egiziani rimpatriati, a fine anno si è superato il numero di 600. Nel 2016 si è già a 89 certi e questo nonostante quanto accaduto con la morte di Giulio Regeni, la macchina non si è fermata, solo pochi giorni fa dalla Campania ne sono stati rimandati a casa altri 19. Adulti e minori, per questi il 15 dicembre scorso è venuta in Italia una delegazione del governo egiziano. In Egitto si è maggiorenni a 21 anni, da noi a 18 ma anche tanti ragazzi poco più che adolescenti sono stati rimpatriati con la forza. Difficilmente hanno avuto modo di accedere alle procedure per le richieste di asilo e quando lo hanno fatto il diniego è scattato con facilità. Difficile sapere se fra le persone rimandate a casa c’erano solo giovani in cerca di un futuro migliore (come se questo non fosse un diritto universale) o persone che fuggivano da un potere che sta seminando morte e terrore. Persone giunte dalla Libia o dagli altri tradizionali percorsi? Non più, dopo mesi di stasi si prova a ripartire anche dagli stessi porti egiziani, almeno 3 imbarcazioni nelle ultime due settimane, cariche non solo di cittadini eritrei o di persone provenienti dall’Africa Sub-Sahariana ma direttamente in fuga dal proprio paese.
Un governo democratico?
Come annotava quasi 2 anni fa Limes pochi giorno dopo le elezioni che hanno portato il generale Abdel Fattah Al-Sisi, già capo delle Forze armate e ministro della Difesa, alla presidenza della Repubblica, l’Egitto non aveva ancora risolto i problemi strutturali che lo attanagliano. Dopo la deposizione di Moubarak, il periodo di presidenza del leader dei Fratelli Musulmani, Al Morsi, il generale è giunto al potere con elezioni quanto mai fragili. Nonostante la proroga di un giorno per le operazioni di voto (si è votato per 3 giorni anziché 2 come previsto) si è avuta una affluenza ormai paragonabile a quella prevista in Italia, 47,5%. Al Sisi ha ottenuto 23 milioni di voti, (il 97%) ma gran parte dei giovani si sono astenuti per protesta, perché le organizzazioni islamiste o laiche erano state poste fuori legge. Dal suo avvento al potere si sono susseguiti arresti, condane a morte – non eseguite ma sempre pendenti – e soprattutto sparizioni di oppositori politici. Secondo l’Egyptian Commission for Rights and Freedom (ECRF), come riportato da Repubblica, da ottobre a dicembre 2015 sono spariti almeno 340 attivisti politici, altri 163 fra aprile e inizio giugno. Non accade più come in passato che si viene presi alle manifestazioni. Secondo il Nadeem Center 474 sono state uccise dalle forze di sicurezza egiziane nel 2015 e oltre 600 sono state vittime di torture. Oggi si sparisce da casa, polizia e servizi negano qualsiasi coinvolgimento nelle sparizioni, inventano ipotetici problemi personali, poi in molti vengono ritrovati già cadaveri, altri si salvano, dopo aver visto l’inferno, altri finiscono in detenzione amministrativa, prevista dal codice penale, rinnovabile ogni 45 giorni, fino a quando si resiste. E poi ci sono le infiltrazioni dei diversi servizi di sicurezza, spesso in competizione fra loro, nelle organizzazioni studentesche, nei sindacati, nel mondo di chi prova a riprendere lo spirito di Piazza Taharir. Non a caso in occasione dell’anniversario della cacciata di Moubarak, il 25 gennaio, la repressione si fa sentire più forte, diventa preventiva per impedire anche assembramenti ritenuti sediziosi. Non a caso il 25 gennaio è stato preso Giulio Regeni.
L’ENI e gli altri
Il gigante italiano degli idrocarburi ha grossi interessi in Egitto e non può certo fermare i propri programmi di sviluppo. Un nuovo accordo, relativo all’estrazione di gas, nel giacimento di Zohr, è stato siglato il 21 febbraio scorso, quando la vicenda Regeni era già esplosa e sembrava minacciare gli ottimi rapporti di affari con Il Cairo. Si trattava di un ulteriore passo avanti dopo gli accordi firmati a luglio scorso. Un accordo del valore di 5 miliardi di dollari, per lo sfruttamento del più grande giacimento del Mediterraneo. Si tratta di una delle otto intese sottoscritte da aziende italiane a margine di un incontro a Roma fra il premier Matteo Renzi e il primo ministro egiziano Ibrahim Mahlab. Il valore complessivo dei contratti, tutti relativi al settore energetico, era di 8 miliardi e mezzo di dollari. Non è ancora poi chiaro se anche il giorno prima della partenza dell’ambasciatore italiano si sia tenuto un nuovo incontro, forse rassicuratore, con i vertici dell’ENI, la notizia non è ancora confermata. C’è stato anche chi ha provato a inventare misere teorie complottarde per la coincidenza del ritrovamento del corpo di Giulio Regeni con un ricevimento all’ambasciata italiana alla presenza dell’ex ministro per lo Sviluppo Economico Federica Guidi, una sessantina di imprenditori già pronti a concludere ottimi affari. Nessun problema, è saltata soltanto la cerimonia. Come riporta Antonio Mazzeo ne I Siciliani, continuano gli investimenti italiani ed europei, soprattutto in ambito militare, con Finmeccanica in testa. Probabilmente si offriranno al governo egiziano ulteriori strumenti di morte, di controllo e magari di tortura. Del resto, dopo i danni incalcolabili causati dalle sanzioni imposte alla Russia, difficilmente l’Italia si avventurerà in nuove misure dannose per la propria economia. Dopo la Germania, il Belpaese vanta di essere il secondo partner commerciale europeo dell’Egitto, con un interscambio in continua crescita. Nel 2014 il giro d’affari è cresciuto del 10%, rispetto all’anno precedente e dovrebbe proseguire con il 7% nel 2015 e il 4,7% previsto per il 2016. Esportazioni a tutto spiano di tecnologia avanzata in cambio di idrocarburi e metalli di base e il Cairo incoraggia l’afflusso di capitali esteri, essenziale per un paese in crisi, che porteranno a opere per almeno 90 miliardi di dollari. Sono oltre 100 le imprese italiane interessate a spartirsi la torta senza essere disturbate. Secondo alcuni quotidiani egiziani l’Italia sta facendo pressioni per imporre sanzioni europee fino a quando non sarà fatta chiarezza su un delitto che di fatto sta condizionando molto il dibattito pubblico. Ma è difficile pensare ad un UE che anche per pochi mesi, in attesa magari di qualche esecutore da consegnare come capro espiatorio, fermi i propri interessi di mercato. Lo stesso governo italiano che fa la voce grossa continua a pensare ad accordi economici da non interrompere, anche nel campo agroalimentare. E nonostante le minacce di limitare l’afflusso turistico – di per se in calo per i timori legati al terrorismo – dal governo egiziano trapela anche un certo ottimismo per il futuro.
La speranza nel popolo egiziano
Se avessimo un approccio italocentrico ci affideremmo soltanto alle splendide e toccanti parole di Paola, la mamma di Giulio Regeni, continuando a lottare con lei per avere verità e giustizia dal governo del nostro paese. Ma non si è soli. Aumentano ogni giorno, in tutta Italia, in alcuni paesi europei, i cartelli gialli con cui si chiedono le stesse cose, si espone la stessa forte domanda. Ma le reazioni, nonostante il terrore, giungono anche dall’Egitto, da chi ha il coraggio di scrivere: «Giulio è un nostro martire che ha esposto al mondo intero il nostro dolore». C’è, è viva e affatto doma una giovane società civile egiziana che non si rassegna ancora, che in piazza intende tornarci e che nel terrore in cui sono cresciuti i loro padri non vuole restare, che nella povertà dei tanti di fronte alla ricchezza dei pochi, non vuole soccombere. Che vuole aiutarci ad avere verità e giustizia per Giulio Regeni e per le tante e i tanti che hanno subito violenze simili. Compito di chi vuole contribuire a cambiare questo pianeta è sostenere questo bisogno radicale di cambiamento, contribuire a riscrivere un’altra storia. C’è chi vuole convincere quei giovani che il terrorismo è la sola risposta che si può dare e l’affidamento ad un dio vendicativo la sola via percorribile. Dovremmo, insieme a loro, costruire un’altra risposta, altrettanto radicale ma foriera di vita e non di morte.