Brennero: essere alle frontiere è importante. Ma basta?

Chiara Zanini

Della giornata del 3 aprile al confine tra Italia e Austria sono girate diverse immagini: lo spray urticante della polizia austriaca contro quello delle bombolette di chi ha scritto “Welcome” sopra al cartello segnaletico Brennero/Brenner, l’azzurro di tende uguali a quelle portate una settimana prima a Idomeni, i giubbotti di salvataggio in riferimento a chi arriva via mare, i flash delle famiglie ignare che fanno shopping all’outlet piazzato sul confine, qualche bengala, il muro di poliziotti austriaci che spingono con gli scudi menano con i manganelli, ma sembrano comunque troppo pochi per essere veri rispetto al migliaio di manifestanti, i messaggi che spaziano da “Basta guerre” a “Salvini muori affogato”. E soprattutto la vernice bianca dell’unica grande scritta lasciata, “Refugees Welcome to EU”, e la promessa di tornare in questo e in tutti i luoghi in cui si cerca di limitare la libertà di movimento.
Sono stata una dei mille. E una che ha dovuto imparare nel tempo ad interpretare foto e giornali. In un articolo sul “grande ingorgo” ormai prossimo, il Corriere della sera riportava che a tre settimane dalle elezioni in Austria «lungo la deviazione è stato montato uno scanner termico in grado di segnalare il calore del corpo di eventuali clandestini nascosti nei container. Un sistema simile funziona anche a Calais. Sul Brennero per il momento i controlli stanno procedendo a campione, in attesa di espandersi fra qualche settimana». A me questo sembra un motivo sufficiente per andare alla manifestazione, senza attendere i respingimenti dalla Grecia verso la Turchia iniziati il giorno dopo, come annunciato. Non abbiamo forse già visto abbastanza? Nessuno mi aveva preparata all’idea che un giorno essere siriani avrebbe significato valere zero, e meno di zero essere eritreo o afghano. Avrei creduto piuttosto che avremmo archiviato goffamente il colonialismo anziché riproporlo sotto altre forme quotidiane. Essere qui ci tocca.
Corpi che attraversano (corpi)
Arrivati i pullman da tutta Italia, si marcia compatti. Ad un certo punto, proprio quando una decina di attivisti si dirige verso i binari della ferrovia incontro un’amica con cui non parlo più da anni. Paradossalmente non c’è luogo o spazio migliore di questo, trasformatosi nel nostro comune immaginario da *montagne attraversate per andare in vacanza* a *confine del diritto* per capire che il nostro, di conflitto, non ha motivo di sussistere. Ci perdoniamo con un abbraccio, ma siamo subito interrotte dagli eventi. Manganelli e spray urticante, mentre i cori sono ancora cantati da alcuni con il sorriso e coprono gli insulti alla polizia. Un principio d’incendio vicino ai binari e un paio di altri episodi derubricabili come estetica del conflitto, ci scorrono comunque accanto come accadeva ai tempi delle manifestazioni per la scuola e l’università. Finché a pochi metri da noi una ragazza viene colpita da un sasso che non può certo essere arrivato dalla polizia in divisa, perché ne intuiamo la traiettoria. Sanguina dalla testa e dice che a colpirla nonostante le intenzioni è stato qualcuno di noi. Sento che di quel “noi” non voglio fare parte e che l’acqua che le offro non basterà. Chi ha lanciato quel sasso? Dei maschi di merda, ci diciamo. Non è la prima volta, non sarà l’ultima. E per quanto mi occupi di cinema non c’è tra questi un solo fotogramma che ora vorrei davvero rivedere, nemmeno in un documentario. Il cretino che ha lanciato il sasso forse invece sì sarebbe disposto a rivedersi, ma non a rivelarsi adesso e soccorrere la ragazza.

Ha senso non esserci?
Ci sono poi momenti più distesi, in cui nonostante la consapevolezza della situazione scambiamo opinioni sul da farsi tornati in città. «E tu, li avresti invitati qui oggi i ragazzi ospitati nei centri di accoglienza?». chiede un milanese. Le risposte sono le più diverse: «chi è senza diritti non può essere alla coda di un corteo o addirittura assente», dice qualcuno. «Ma non può nemmeno rischiare di perdere quel poco che gli viene dato nel business dell’accoglienza – dice qualcun altro – Noi invece rischiamo al massimo il disprezzo di un Paese in buona parte ignorante e una denuncia che non ci permetterà di lavorare al prossimo Expo. In tanti questa settimana hanno firmato la petizione contro l’arresto di otto persone omosessuali in Tunisia e per un attimo quelle firme ci hanno rassicurati riguardo la sensibilità dei nostri concittadini, ma perché non sono qui?». Gli otto sono ancora in carcere, due ragazze che erano state anche loro arrestate sono state liberate.
Vittoria! Vittoria?
Al microfono qualcuno dice che con questo gesto al Brennero abbiamo scritto la Storia. Non sono d’accordo. Non passa giorno senza che centinaia di persone patiscano un viaggio forzato e siano respinte in ogni modo possibile. E contano forse le buone maniere quando il concetto che passa è che chi resta è per molti un peso? Le sedicenti organizzazioni umanitarie che si vantano di aver portato qualche beneficio farebbero meglio a lavorare in silenzio, a mio parere. E anche noi che i confini li monitoriamo nella speranza di trasformarli dobbiamo porci qualche domanda. Quanti viaggi potremo fare ancora Ventimiglia, a Calais, a Idomeni, a Lampedusa sapendo già che questo inferno non finirà in un attimo? Diamo cibo, scarpe e tutto quello che possiamo perché non lo fa quasi nessun altro, ok, e poi? Quanti giornalisti militanti dobbiamo augurarci di formare perché siano i Cie e gli hotspot stessi ad andare incontro alla morte, e non più i malcapitati reclusi? Quanti egiziani sono rimpatriati in queste ore senza che il caso Regeni abbia insegnato niente? Quanti affondano vicino alle coste libiche nel silenzio pressoché generale, perché per la stampa mainstream non raggiungono i grandi numeri? Siamo sempre lì: l’attivismo è necessario, raramente risolutivo. Quando capiremo cosa può succedere a breve in Libia sarà diverso?

Dopo aprile viene maggio.
Uno degli ultimi interventi dal furgone No Borders è di Karim Franceschi, piuttosto conosciuto per aver combattuto con i curdi contro l’IS. è lui ad invitare al prossimo appuntamento. Lo guardo e penso che quella che chiama “resistenza” per molti non è accettabile e a volte addirittura confusa con il terrorismo. L’Europa non è quella comunità d’intenti che ci è stata raccontata, oppure i suoi intenti sono cambiati fino a divenire un club per privilegiati. Schengen è solo un nome cui seguono altri. Mi è stato chiesto pochi giorni fa cosa significhi #OverTheFortress … forse non si tratta solo dell’altrui indifferenza, ma pure di una nostra difficoltà nel comunicare.

Tornare, elaborare.
Al bar della ferrovia non è rimasto quasi più niente perché non si aspettavano tutto questo traffico. Noi diretti in Lombardia stiamo tutti bene e riusciamo a scherzare di come sarebbero diverse le manifestazioni se un giorno il pullman potesse fermarsi a fare benzina in un autogrill gestito dal kebabaro sotto casa, ossia se davvero chiunque potesse diventare imprenditore. Ma elaborare la giornata ora non ci riesce. È troppo tardi. O è troppo presto. Molti di noi hanno frequentato scuole e università che fa specie sentir chiamare “multiculturali”, perché lo erano già quando eravamo ragazzini, ed il futuro delle amicizie con chi non era nato qui dipendeva dal rinnovo del permesso di soggiorno dei genitori che spesso non arrivava. Poi abbiamo girato l’Europa per studio e per amore come un europeo/a può fare. Abbiamo avuto conferma dalle serie tv che un ambiente misto è di sicuro meno noioso. Abbiamo partecipato a colloqui di lavoro di gruppo in cui la ragazza col velo veniva fatta fuori in pochi minuti. Abbiamo camminato, non sempre insieme, in tante manifestazioni. E poi abbiamo visto la foto di quel bambino su quella spiaggia. Quella l’abbiamo vista tutti.

Ma tu sei NoBorders o Pro-Asyl?
Vorrei poter dire solo che il punto è un altro, vorrei che di scrivere una domanda d’asilo per la commissione territoriale (e questo va detto, i centri sociali lo fanno) nessuno avesse più bisogno, vorrei che le persone avessero tutte lo stesso diritto che hanno le merci di spostarsi, che lo facessero solo quando gli va e non perché forzate. Vorrei che gli adulti non si rinfacciassero di aver fatto crescere i figli nel fango di un campo profughi. Perciò cosa spinga una giornalista oggi a scrivere su un quotidiano nazionale che a manifestare al Brennero vanno solo i centri sociali davvero non si capisce, a meno di non considerare l’idea che si sia lasciata operare un lavaggio del cervello da quel nuovo direttore che presenta come esperti fidati i criminali di guerra. E la prima cosa che leggo appena riesco a ricaricare il telefono è un annuncio di lavoro di Frontex: come siamo ridotti, penso. Nonostante si tratti dell’ennesimo tirocinio arrivo persino a condividerlo su Facebook nella speranza che ci finisca a lavorare qualcuno che sa di cosa parla, che torni utile per monitorare questo sistema. Immagino per un secondo un Frontex-Leaks, ma cosa ancora ci serve sapere? Quando siamo lucidi sappiamo che la confisca dei beni ai migranti non la fermi neanche se sei Ai Weiwei. No, non si vive di speranza. Ma le frontiere non crolleranno da sole e per capire che non devono esistere affatto è necessario attraversarle personalmente e collettivamente. Ancora una volta potrebbero essere le merci a far decidere che le soste obbligate al Brennero costano troppo ai vari governi e non ha senso militarizzare l’area. Anche Hitler e Mussolini si sono trovati qui, e sempre di schierare soldati si trattava.
Ci vuole un po’ per elaborare una giornata del genere, ma bisogna finire col chiedersi: si può forse rimanere sul divano e stare a guardare?
Mi risuona quanto letto su Lavoroculturale.org dai ricercatori Charles Heller e Lorenzo Pezzani, tra coloro che hanno contribuito a fondare la piattaforma Watch The Med, a proposito del mezzo della fotografia: «Mentre le immagini rivelano la violenza dei confini, gli Stati cercano di mantenerle invisibili». E da Dan Haile Gebre, sopravvissuto alla left-to-die-boat: «Noi guardiamo loro. Loro guardano noi. Noi gli facciamo vedere i cadaveri, i bambini. Bevevamo l’acqua del mare, eravamo disperati. L’equipaggio della barca scattava foto, nient’altro».