A volte si scrive sapendo perfettamente che le notizie di cui si dà conto rischiano di essere facilmente spazzate dagli eventi successivi nell’arco di poche ore. Ma a nostro avviso è ugualmente urgente farlo, per evitare tante mistificazioni che ex post verranno poi fatte. «Decine di migranti sono considerati dispersi dopo che la loro barca è affondata al largo della Libia mercoledì scorso, un portavoce delle forze navali del paese ha dichiarato che ci sono i segnali di un forte aumento del numero di persone che tentano la pericolosa traversata dal Nord Africa verso l’Europa. In precedenza i funzionari italiani avevano dichiarato che la guardia costiera e alcune navi militari avevano salvato 1.361 migranti raccolti in barche e gommoni nel Mediterraneo meridionale. Il portavoce libico, Ayoub Qassem ha detto che le guardie navali avevano intercettato una barca con a bordo 120 migranti al largo della costa nei pressi di Sabratha ed erano anche riusciti a salvarne 32 dalla barca affondata. Si ignora il numero dei dispersi». Lo scrivevano il giorno dopo il Cyprus Mails e il Mail on line ma in Italia, come abbiamo già avuto modo di scrivere, silenzio pressoché totale. In pochi giorni, complice anche condizioni del mare favorevoli, gli sbarchi sono ripresi e non certo per le menzogne di Stato che legano tale ripresa alla chiusura della Balkan Route.
Dai Balcani, con tutte le difficoltà e le tragedie di cui abbiamo quotidianamente notizia, si riesce ancora a giungere in Europa ed il flusso di persone proviene da paesi specifici, come è sempre stato: Siria, Pakistan, Afghanistan e Bangladesh innanzitutto. Dal fronte libico, perché di fronte si tratta e di questo bisogna parlare, si cerca di fuggire ora finché c’è la possibilità. Si scappa dai paesi dell’Africa Sub Sahariana, ci si ferma in Libia solo per il tempo strettamente necessario e poi si riprende la strada più pericolosa, quella del mare, quella che ha provocato in due decenni oltre ventimila vittime. Lo si fa ora perché potrebbe per molti essere l’ultima occasione di trovare scampo. Fuggiti da Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Ghana, Gambia, Eritrea ed Etiopia, erano rimasti in attesa in Libia ma ora il paese sta precipitando nel conflitto e l’Europa, a qualsiasi costo è la sola soluzione. Quanto sta accadendo in queste ore a Tripoli è emblematico: il governo voluto, per certi versi costruito dall’ONU in barba alle difficoltà interne di un grande e complesso paese, si è insediato nella maniera più metaforica possibile. Un governo che è arrivato a Tripoli da Tunisi, in una città dove si disconosce la nuova autorità del premier Fayez al Sarraj e dove le milizie del governo di Tripoli del Gnc (General National Congress) hanno prima invitato il neo presidente a “consegnarsi” o a tornarsene in Tunisia in quanto considerato un intruso. Neanche dopo un giorno il nuovo governo si è dovuto trasferire a Mishrata, di fatto oggi considerata capitale temporanea. Le forze speciali inglesi risultano già spiegate sul territorio per controllare la capitale. Ma la capitale di cosa? È lo stesso Paolo Scaroni, attuale Presidente di Rotschild ma per lungo tempo numero 1 di ENI e ENEL e in questo ruolo profondamente interessato al contesto libico, a dare una propria interpretazione priva di diplomazia. Secondo Scaroni la Libia per ora non esiste più. L’Italia dovrebbe concentrare i propri sforzi per fare in modo che nasca un governo stabile in Tripolitania.
E qui servono due spiegazioni, la prima che attiene alla storia coloniale e la seconda all’attualità. La Libia in quanto tale è il frutto di una unione forzata di tre regioni distinte, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, voluto dal sogno imperiale fascista e attuato nel 1934. Le tre aree del paese hanno di fatto, anche sotto Gheddafi, mantenuto proprie forti distinzioni minate dalla capacità del regime di impedire il formarsi di autorità regionali autonome. Dopo la caduta del Colonnello, le antiche divisioni sono riemerse e anzi, all’interno delle tre singole entità continuano scontri interni fra milizie private o connesse a specifici progetti e protettorati politici ed economici. E, seconda spiegazione, come ricordava Nancy Porsia nel convegno realizzato a Palermo da ADIF nel novembre scorso, il governo di Tripoli, quello che tenta di imporsi sulla Tripolitania, ha certamente una matrice islamista ma non è ascrivibile al Daesh, presente molto più a Sirte o a Sabratha. Il CNG ha l’appoggio di Turchia e Qatar, realizzare in Tripolitania un governo più moderatamente ascrivibile alla Fratellanza Musulmana è per l’ENI il vero obbiettivo. All’Italia che in cambio toglierebbe ogni ostacolo agli accordi con la Turchia, la Tripolitania. Per il controllo della Cirenaica e del Fezzan i giochi si farebbero fra Francia e Regno Unito. Si tornerebbe insomma ad una situazione ante Seconda guerra mondiale anche se si lanciano ancora segnali per un futuro di Stato federato. Ben diversi sono gli interessi di USA ed Egitto, come ben definisce Richard Seymour. Americani ed egiziani sono i veri sponsor di un governo impopolare solo nella propaganda “di unità nazionale” – che però rafforzerebbe, così come tentato dalle precedenti e opache interferenze ONU di Bernardino Leon, il governo di Tobruk.
Insomma gli interessi italiani e quelli di Usa ed Egitto sembrano contrapposti. Nonostante ciò dalla base di Sigonella (Ct) partono i droni statunitensi che martellano la Libia mentre gli impianti ENI sono attualmente protetti da chi si oppone al sedicente governo di Unità Nazionale. Insomma si prepara un conflitto che, comunque vada, lederebbe anche gli interessi nazionali dei veri poteri forti. Un conflitto il cui esito sarebbe da una parte la dissoluzione dell’entità statuale libica (il cinismo di Scaroni sembra collimare con i piani di Al Sisi) ma anche, per l’ennesima volta, ai due classici effetti collaterali. Da una parte il rafforzamento del Daesh, che in condizioni di conflitto interno diventerebbe, come è stato per tanti altri Stati in cui l’Occidente è intervenuto, dall’Afghanistan all’Iraq, elemento catalizzatore.
A seguire la Libia non potrebbe più svolgere il ruolo di “stato cuscinetto” che di fatto se ha visto partire migliaia di persone ne ha contenute nel proprio territorio un numero infinitamente più ampio. Una mano d’opera proveniente dai paesi Sub Sahariani e dalle dittature del Corno D’Africa, che avrebbe come unica chance quella di cercare di giungere in Europa. Ed è grottesco come Paolo Scaroni, difendendo la propria ipotesi di Tripolitania sotto il controllo italiano, dichiari che è inammissibile che un Paese le cui coste sono a 80 miglia marittime dalle nostre crolli facendoci diventare una “nuova Calais”. In realtà diventeremo una nuova Dover in cui pochi riusciranno a giungere, in un mediterraneo solcato da navi militari e i cui cieli saranno cieli di droni e bombardieri. Aumenteranno i morti in mare, le condizioni emergenziali in Libia e in Sicilia che si ripercuoteranno nel resto del paese riportando ai fasti mai sopiti di Mafia Capitale.
Già oggi, non esistendo una politica europea sulla crisi libica e sull’immigrazione degne di questo nome, si torna alle emergenze umanitarie, esce a nudo la cronica insufficienza dei diversi sistemi di accoglienza italiani. Le risorse in tal senso sono già state tagliate, malgrado quello che si va profilando, si accoglie con gestioni che vincono gli appalti per garantire i servizi, con gare al massimo ribasso e questo acuisce i problemi in maniera micidiale. Problemi che si riprodurranno sulle condizioni materiali di vita di migranti e autoctoni, che riproporranno con maggiore enfasi lo scontro fra ultimi e penultimi, in questa oscena guerra asimmetrica e che faciliteranno la crescita di populismi xenofobi già in ascesa.
Saranno conti pesanti che la fortezza Europa sarà chiamata nel tempo a pagare. Le politiche di guerra ai migranti e la logica dei muri produrranno più insicurezza di quanta non se ne subisca oggi. L’abbandono della via negoziale e i tentativi di soluzione dei conflitti con l’intervento dei servizi di sicurezza e di truppe speciali segrete, come sta sperimentando la Gran Bretagna in Libia, così come i bombardamenti che producono “effetti collaterali” sulla popolazione civile, finiranno per legittimare le milizie armate che combattono sotto le diverse insegne del terrorismo internazionale e i disegni politici che le sottendono.Da ultimo va tenuto presente che non solo la Libia è tornata ad essere paese di fuga. Due imbarcazioni sono partite dall’Egitto, non accadeva da mesi, segnale che anche nell’Egitto che, oltre a torturare e a uccidere Giulio Regeni, a spandere menzogne di Stato, fa sparire centinaia di oppositori politici la situazione non è affatto serena e da “paese sicuro” in cui rispedire le persone sgradite. Di fronte a questa situazione disastrosa sia in Libia che in Italia, e di fronte alla crescita esponenziale delle vittime tanto in Libia che nelle acque del Mediterraneo, non rimane che chiedere una soluzione affidata alle diplomazie del conflitto libico, che lasci i libici liberi di decidere del loro destino senza la copertura delle potenze occidentali, e l’apertura immediata di canali umanitari dalla Libia, con la trasformazione delle missioni militari operanti ai confini di quel paese, sia in terra che in mare, in missioni umanitarie e con la sospensione immediata dei respingimenti collettivi dalla Libia verso altri paesi come la Nigeria, il Niger, il Mali e delle altre aree di crisi già elencate.
Contemporaneamente deve cessare il sostegno generalizzato di cui continuano a godere regimi come quello di Al Sisi in Egitto o di Erdogan in Turchia che direttamente e indirettamente, come abbiamo già avuto modo di dire, sono potenti voci in capitolo che influenzano la direzione che prenderà la situazione libica. L’Europa ormai sull’orlo del suicidio, con la logica dei muri e degli accordi di contenimento e di esternalizzazione effimera delle frontiere, ha solo questa strada per sopravvivere. E anche in Italia si dovrà decidere se continuare ad accettare l’egemonia degli interessi dell’ENI o quelli di un intero paese.