Un “sacrario” per le vittime di Lampedusa in nome della pace

Emilio Drudi

Riunire in un unico luogo le salme delle vittime del naufragio di Lampedusa. Se possibile proprio sull’isola, altrimenti in un’altra località della Sicilia legata alla tragedia dei profughi. E’ la proposta che l’agenzia Habeshia ha rivolto al presidente del Consiglio Matteo Renzi, al presidente del Senato Pietro Grasso e a quello della Camera Laura Boldrini.

L’occasione è venuta dal voto favorevole con cui a Palazzo Madama si è concluso l’iter per istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, scegliendo proprio la data della strage di Lampedusa, il 3 ottobre. L’idea di Habeshia, tuttavia, va anche oltre: vuole tenere conto di tutto quello che è accaduto da quel disastro in poi, sottolineando come la situazione non sia affatto mutata. Al contrario. I migranti continuano a morire in gran numero, giorno dopo giorno: dall’inizio dell’anno, secondo il censimento del Comitato Nuovi Desaparecidos, le vittime sono già più di 500, nel 2015 sono risultate più di 4.100, quasi 3.600 nel 2014. Eppure, di fronte a questa catastrofe umanitaria, l’Unione Europea continua a voltarsi dall’altra parte. Anzi, ad alimentare il massacro, alzando muri fisici di cemento e filo spinato alle frontiere e barriere insormontabili di incomprensione e ostilità, fatte di leggi, scelte politiche, norme legali che rasentano il razzismo. Barriere, ad esempio, come gli accordi appena sottoscritti con la Turchia che – non a caso contestati come una aperta violazione dei diritti umani da parte del Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e da tutte le principali organizzazioni umanitarie, a partire da Amnesty, Human Rights Watch e Medici senza Frontiere – sono la prosecuzione naturale di una politica generale di respingimento costruita prima con i trattati bilaterali stretti via via tra vari Governi europei e africani, e poi con il Processo di Rabat (2006), il Processo di Khartoum (2014) e gli accordi di Malta del novembre scorso. Tutti rivolti ad esternalizzare i confini dell’Europa, spostandoli sempre più a sud, oltre il Sahara in Africa e in fondo all’Anatolia nel Medio Oriente, per poter affidare ad altri, in cambio di denaro e lontano dall’attenzione della gente, il lavoro sporco di bloccare e rimandare indietro profughi e migranti. “Altri” che sono spesso autentici dittatori, come Al Sisi in Egitto, Al Bashir in Sudan, Isaias Afewerki in Eritrea.

«Quella di istituire una Giornata per le vittime dell’immigrazione – si legge nella lettera di Habeshia, firmata da don Mussie Zerai – è una decisione molto attesa e importante, specie in questo periodo di crisi e di estrema incertezza nella politica di accoglienza, con enormi, spesso incomprensibili contraddizioni e chiusure nei confronti dei profughi, dei richiedenti asilo e dei migranti che bussano alle porte dell’Italia e dell’Unione Europea in nome del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Quei diritti inalienabili che sono alla base, il fondamento stesso, di ogni democrazia. Chiediamo, tuttavia, di avere la sensibilità e il coraggio di compiere un ulteriore passo nella direzione imboccata al Senato. I resti delle 366 vittime del naufragio del 3 ottobre 2013 (quelle identificate e quelle ancora senza un nome) sono sparsi in diversi cimiteri della Sicilia. Proponiamo, allora, di riunire quelle donne e quegli uomini in un unico luogo: farli riposare insieme come insieme, purtroppo, sono morti e come insieme, fino a quella tragica alba, hanno accarezzato il sogno di una vita libera e dignitosa, un futuro migliore per sé e per i propri figli. Se sarà possibile e se il Comune sarà d’accordo, si potrebbe trovare un’area apposita nel cimitero di Lampedusa. Altrimenti, in una città della Sicilia, magari uno di quei porti della costa meridionale dove continuano ad arrivare migliaia di giovani che inseguono le stesse speranze dei fratelli che li hanno preceduti e che non ce l’hanno fatta. Si creerebbe in questo modo come un piccolo sacrario dell’immigrazione, dove pregare, portare un fiore, riflettere».

A sostegno della sua richiesta, Habeshia parte da due considerazioni. La prima nasce da una esigenza di umana pietà: dare ai familiari, ai parenti, agli amici delle vittime un punto di riferimento dove poter «elaborare il lutto: piangere e ricordare i propri cari per quel bisogno naturale, radicato in ogni cuore, di mantenere vivi certi legami affettivi al di là della morte stessa». «In secondo luogo – prosegue don Zerai – proprio questo piccolo sacrario può conferire più consistenza e spessore alla Giornata della Memoria che è stata appena istituita, dando voce e concretezza all’esigenza di legare i ricordi a luoghi, episodi, circostanze, persone. In una parola, a un simbolo capace di riassumere i sentimenti e, insieme, il senso di giustizia che ciascuno porta con sé in un angolo della propria coscienza».

Umana pietà e senso di giustizia, dunque. Ovvero, memoria non come sterile esercizio del ricordo ma come assunzione di responsabilità, per capire come si sia potuti arrivare a quella strage consumata ad appena 800 metri dalle coste italiane di Lampedusa. E chiedere conto sia di quei 366 morti, sia di tutti gli altri che, costretti ad abbandonare il proprio paese inseguendo un sogno di libertà e di vita migliore, hanno invece trovato la morte. E’ questo il significato profondo della proposta di Habeshia, certa di interpretare, in questo modo, il “sentire comune e la volontà” di tutti i familiari e gli amici delle vittime: i profughi morti a Lampedusa in particolare, ma anche le altre decine di migliaia che si sono persi durante la loro lunga, dolorosa fuga per la vita: in fondo al mare o nelle marce attraverso il deserto, nei centri di detenzione dei paesi di transito o nei lager dei trafficanti di uomini, nelle sparatorie ai posti di confine, nelle rappresaglie o nei conflitti in cui si sono trovati coinvolti loro malgrado lungo il cammino.

«Siamo convinti che salvare i vivi è il miglior modo per onorare i morti – specifica Habeshia – Allora ecco: accogliere la nostra richiesta sarebbe un segnale molto significativo anche per tutte le donne e gli uomini che, fuggendo dall’Africa e dal Medio Oriente, sperano di trovare accoglienza in Europa o, più in generale, nel Nord del mondo, per salvarsi da guerre, terrorismo, persecuzioni, siccità e carestia, disastri ecologici e ambientali, fame e miseria endemica. E, nel caso specifico dell’Eritrea, da cui venivano ben 360 delle 366 vittime del tre ottobre 2013, un monito costante della tragedia in cui la dittatura ha precipitato il paese e la sua gente».

La proposta è stata depositata due giorni prima della strage di Bruxelles. I profughi e i richiedenti asilo, in realtà, non hanno nulla in comune con il terrorismi jihadista. Anzi, spesso ne sono le prime vittime. Proprio in questi giorni, in un servizio pubblicato dalla rivista Deqip, l’Isis ha definito “nemici e traditori” le centinaia di migliaia di disperati che si rivolgono all’Unione Europea in cerca di salvezza, ammonendo che «andare volontariamente nella terra dei non credenti è un peccato grave e pericoloso». E, come ha segnalato l’Unhcr, oltre l’85 per cento dei migranti che hanno attraversato l’Egeo o il Mediterraneo vengono da paesi “ad alto rischio”. Eppure, sulla scia dell’orrore suscitato dal nuovo attacco terroristico in Belgio, si stanno moltiplicando in tutta Europa i sospetti strumentali e le voci ostili nei confronti dei rifugiati e degli immigrati, assurdamente associati di fatto al fronte fondamentalista, tanto da chiedere di restringere i criteri di accoglienza, di incrementare ancora di più i respingimenti, di alzare muri sempre più alti. In nome della sicurezza. «Ma il modo migliore per garantire la sicurezza di tutti è costruire la pace – rileva Habeshia – Ecco, la realizzazione del sacrario per i morti di Lampedusa e per tutte le vittime dell’immigrazione può essere un grande segnale di pace».