Una calda mattina di marzo. Ero in una scuola romana di periferia a parlare di rifugiati e di immigrazione, di Paese che cambia e di futuro, di speranze e di sofferenze. Non era facile. Due ore prima le bombe di Bruxelles avevano riportato a livelli alti il sapore acre dell’odio e dello spirito di vendetta, della paura e della diffidenza. I ragazzi e le ragazze mostravano bisogno di capire, di conoscere la verità dietro tanto terrore, di avere segnali per poter interpretare un mondo troppo brutto, un mondo da war generation. Non so se ci sono riuscito a comunicare loro il bisogno di reazioni razionali, l’invito a progettarlo un mondo migliore visto che la mia generazione ha fallito in pieno e che chi oggi decide i destini della terra si mostra non solo cinico e crudele ma fondamentalmente stupido, miope, incapace di avere una visione di futuro diversa. Ho provato dire a quelle facce anche smarrite che sarebbe toccato a loro provare a cambiare le regole, a renderle più giuste per tutti, a dire questo è l’unico vero antidoto che ci rimane. Ho provato a farlo anche rompendo con qualche battuta leggera la pesantezza del momento ma cercando di scaldare e di provocare il bisogno di non rassegnarsi, di non accettare il presente come inevitabile, normale, come condizione permanente di un pianeta che va verso il baratro. A infondere fiducia e coraggio, il coraggio anche di ribellarsi alle menzogne che accompagnano l’informazione di guerra, gli appelli alla vendetta, ho chiesto di imparare sempre a distinguere le persone non in base al paese di provenienza o alla religione professata ma cercando di conoscere, incontrare, confrontarsi e anche scontrarsi se necessario, ma con altre persone e non con la loro rappresentazione. All’uscita dall’incontro, organizzato da Amnesty International, alcuni mi hanno ringraziato, uno mi ha chiesto la mail perché ha scritto una canzone contro il razzismo e me la vuole far sentire, alcuni sguardi mi sono sembrati, forse mi sono illuso, per un momento almeno più sereni. Erano ragazzi e ragazze che reagivano con serietà che riflettevano, che avrebbero bisogno forse molto più spesso di essere informati e messi in condizione di farsi una opinione propria. Mi sono presentato come persona di parte, ho chiesto di non prendermi in parola ma di documentarsi, imparare a confutare chi si presenta davanti a loro con le certezze e il loro calore ha rasserenato anche me.
Il giorno dopo, una fredda mattina di marzo. Una visita programmata, con la Campagna LasciateCIEntrare, nel CIE di Ponte Galeria, a Roma. Non era fredda e grigia solo la giornata. Era freddo e grigio quel posto opprimente in cui ancora si chiamano le persone “ospiti” ma in cui, per stessa ammissione dei gestori, vige un regime ancora più restrittivo di quello che c’è in carcere senza averne i benefici. Una frase per tutte: «Non possono avere asciugamani di tessuto o lacci delle scarpe che potrebbero utilizzare per atti autolesionisti. E questo li fa sentire umiliati. Ma siccome non è un carcere e siccome il personale che lavora qui è di civili e non ha le competenze delle guardie penitenziarie, mentre in carcere queste cose sono concesse, qui il regime è più restrittivo». Quasi 60 donne prigioniere – la sezione maschile è stata evacuata dopo una rivolta e dovrà essere ricostruita – in gran parte ragazze nigeriane, un gruppo provenienti dalla Cina, altre dall’Est Europa, due comunitarie, una da Cuba. Storie diverse di persone prese da una città all’altra – a Roma c’è l’unico CIE per donne – perché prive di documenti o destinatarie già di un decreto di espulsione. Giovani e di mezza età, rassegnate o combattive, logorate da un mondo di sbarre e squallore che nessun tentativo di lenire la privazione di libertà potrà mai cancellare. Persone che se hanno padronanza di italiano o di inglese ti raccontano brandelli di vita trascorsa. Veri o reali ma cosa importa? Persone dal futuro incerto, molte sperano di ottenere protezione internazionale, alcune dichiarano di voler tornare nel proprio paese mostrando profondo disprezzo per chi le tiene in gabbia senza ragione comprensibile. Diffidenza giustificata al primo approccio, poi qualche traccia di sentimento, ma come una cappa di piombo l’ombra di uno stato depressivo opprimente. Si resta a letto gran parte del giorno a guardare il soffitto, ci si raduna nelle celle/stanze da sei posti, per potersi scambiare parole in libertà, per tessere tenui legami a cui aggrapparsi mentre i giorni passano. Ognuna di loro conta i giorni trascorsi in gabbia senza sapere quanti ne dovrà passare: 30, 60, 90? un anno in attesa dello sviluppo delle procedure di richiesta di asilo come dalle nuove norme? Oppure una mattina all’alba, all’improvviso, verranno svegliate, costrette a prepararsi e imbarcate verso il paese di provenienza perché ritenute non degne di restare in Italia? Non lo sanno, i giorni passano e questo pesa. Lo vedi negli sguardi appannati, nel lento incedere con cui si recano verso la mensa, in ciabatte infradito nonostante le pozzanghere nel cemento.
E viene da comparare le due mattinate. Alcune delle ragazze incontrate a Ponte Galeria hanno non più di 3 o 4 anni delle studentesse del giorno prima. Ma per il resto? Mondi distanti. Le donne di Ponte Galeria sono effetti collaterali della guerra planetaria contro il diritto alle persone di decidere del proprio destino, di migliorare le proprie condizioni di vita, di salvarsi forse da morte certa o da vita inaccettabile. Sarebbe utile se un giorno questi due mondi riuscissero a parlarsi, a far incontrare i propri sguardi, a scambiare il calore delle proprie mani. Se accadesse su scala globale sarebbe la fine, tanto per chi mette le bombe quanto per chi impone le guerre e ancora di più per chi permette a generazioni intere di sentirsi in perenne guerra. E forse sarebbe un nuovo inizio.