Uscire dalla nostra impotenza politica

Geoffroy de Lagasnerie

Traduzione dal francese di Annalisa Romani

Il pensiero critico ha sempre stabilito come una delle sue questioni essenziali quella del presente. Ma è altrettanto vero che ci sono diversi modi di stabilire una diagnosi dell’attualità, di comprendere cosa ci succede e di reagirvi – ed è in questo spazio di dissenso che si apre il dibattito intellettuale. Anche se bisogna sempre diffidare delle dichiarazioni drammatiche, resta il fatto che tutto conduce a pensare che oggi viviamo un momento critico e che dobbiamo guardarlo in faccia. Siamo sottoposti a una situazione storica che ci obbliga a interrogarci in modo profondo su chi siamo, sui nostri modi di pensare, sulle nostre maniere di agire – sulla nostra mentalità.
IMPOTENZA
Se si dovesse connotare con una sola parola la situazione politica contemporanea e l’esperienza che ne abbiamo, utilizzerei il concetto d’impotenza. Da diversi mesi, perfino diversi anni, gli Stati mettono in atto, in quasi tutti gli ambiti, misure guidate da logiche che sappiamo essere pericolose, nocive o non etiche. Nonostante ciò abbiamo difficoltà a combatterle, o a orientare i governi verso soluzioni più accettabili. E non mancano esempi recenti: la gestione autoritaria e assurda del debito da parte degli Stati europei, specialmente in Grecia; la crisi dell’accoglienza dei migranti, che è sfociata nella restaurazione delle frontiere, dei muri e dei campi in Europa; la messa in atto, su scala mondiale, dei programmi di sorveglianza di massa e di controllo di internet; e per concludere l’instaurazione, tre mesi fa, dello Stato di emergenza in Francia. Nel fatto che gli Stati siano animati da logiche contro le quali ci battiamo non vi è sicuramente nulla di nuovo. Ciò che è specifico, invece, o che aumenta, è la nostra incapacità a influenzare il corso delle cose. Ogni qualvolta interveniamo, protestiamo, manifestiamo, questo sfocia sempre meno in trasformazioni effettive. Bisogna osservare il presente con lucidità. E non prendersi in giro, come a volte tendiamo a fare per non cedere a una forma di disperazione. È necessario partire dalla verità: da diversi anni, quando ci situiamo nel campo del progresso e dell’emancipazione, perdiamo le lotte. Sono tanti quelli che oggi vivono la loro vita politica all’insegna dello sconcerto e della tristezza. Come scrivevo a settembre su Le Monde, in un manifesto pubblicato con Edouard Louis (cfr. Manifesto per una controffensiva intellettuale e politica) fare l’esperienza della politica, per la maggior parte di noi, significa ormai sperimentare l’impotenza. In quanto intellettuali, artisti, scrittori, giornalisti, militanti ecc. non siamo certamente responsabili di tutto. Alcune responsabilità si situano a livello dei meccanismi della ragione di Stato, dell’autarchia del campo politico, delle ideologie diffuse attraverso il campo mediatico. Ma non possiamo fermarci a questo tipo di analisi. Se vogliamo uscire dalla nostra situazione d’impotenza e di ansia, è necessario procedere a un riesame del nostro rapporto alla politica. Mi chiedo, d’altronde, se non siamo così abituati a perdere da non interrogarci neanche più su questa situazione. Tematizziamo i nostri fallimenti come delle evidenze. Ed è per questo che dobbiamo politicizzare tale questione. Dobbiamo chiederci perché la politica emancipatrice sembra condannata a una forma d’impotenza – e in che modo questa situazione può essere cambiata.

Tre dimensioni essenziali.
1 Azioni
Pensare la nostra impotenza politica impone prima di tutto di riflettere sulle nostre modalità d’azione. traiamo troppo poco le conseguenze del fatto che lo spazio della contestazione è probabilmente uno dei più codificati della vita sociale: le contestazioni si svolgono secondo forme stabilite. Alcune istituzioni, installate solidamente, strutturano il tempo e lo spazio della contestazione democratica. Lo sciopero, la manifestazione, la petizione, il lobbying, il sit in, la disobbedienza civile, perfino la rivolta violenta, ecc. sono forme rituali e riconosciute. In pratica viviamo in un campo in cui l’espressione della dissidenza è già iscritta nel sistema e dunque in un certo senso programmata da quest’ultimo. Dobbiamo chiederci cosa facciamo nel momento in cui utilizziamo i modi istituiti della contestazione democratica. Stiamo agendo? O ci stiamo accontentando di protestare, di esprimere il nostro disaccordo – prima di rientrare a casa? Se le nostre proteste non cambiano nulla – o, in ogni caso, non hanno che in casi eccezionali degli effetti reali – questo non significa forse che le forme delle azioni tradizionali funzionano come trappole e trucchi della ragione di stato? Nel senso che quando vi ricorriamo abbiamo il sentimento di aver agito, mentre in realtà non abbiamo fatto niente di più che esprimere il nostro disaccordo. Queste forme, d’altronde, non sono consuetudinarie con il passare del tempo? Non hanno perso la loro efficacia? Se vogliamo mettere in crisi lo Stato non dobbiamo piuttosto inventare dei modi di protesta che sorprenderebbero lo Stato e che non sarebbero più prescritti dal sistema?
2 Tempo
Ripensare il nostro rapporto alla politica impone anche di riflettere in termini di strategia e di temporalità. Suggerisco l’ipotesi che se perdiamo le battaglie, forse è perché non cessiamo di situarci rispetto allo Stato e in funzione delle azioni dello Stato. Viviamo una tale epoca di regressione che la critica politica si limita spesso a reagire alle reazioni dello Stato. Noi ci costituiamo come gruppo politico rispetto a ciò che fa lo Stato. È quindi lo Stato che fissa i termini del dibattito, che fissa la temporalità politica, che fissa i soggetti di cui discutiamo. La critica si trova posta in posizione reattiva e secondaria. Per questa ragione lo Stato domina: ci si impone e, strategicamente, noi non siamo più capaci di imporci a esso. Potremo uscire dalla nostra situazione di de-possessione solo se trasformiamo il nostro rapporto al tempo. Bisogna trovare dei modi di resistere allo Stato senza reagire allo Stato. Dobbiamo fare attenzione a non situarci, sempre, rispetto allo Stato. Dobbiamo provare a sorprenderlo, a imporre il nostro ritmo, ad attaccarlo là dove non se lo aspetta, a far emergere dei temi ai quali non pensa… Insomma, bisogna instaurare una nuova temporalità politica.
3. Teoria critica.
Infine, ed è forse il punto più importante, dobbiamo mettere in discussione il linguaggio, i modi di analisi che adottiamo e il modo in cui costruiscono il nostro rapporto agli avvenimenti. Se vogliamo inventare una nuova mentalità e uscire dal nostro stato di ansia, dobbiamo ridefinire lo spazio della teoria e della critica. La mia tesi è che le narrazioni dominanti, utilizzate per cogliere il presente, hanno tendenza a bloccare le nostre capacità di resistenza, invece di renderle vitali. La questione del vocabolario della critica mi interessa molto, fin dal mio libro su Foucault e il neoliberalismo: mi interrogo su che cosa significhi elaborare una critica non passatista del presente e quindi non reazionaria del neoliberalismo: come possiamo criticare il presente senza erigere il passato a norma e punto di riferimento di valore? Credo che la nostra impotenza politica contemporanea derivi dal fatto che, nella maggior parte degli ambiti, abbiamo difficoltà a proporre una critica integrale del passato e del presente – e dunque una critica immaginativa. Sarebbe sicuramente ingiusto affermare che un gran numero dei teorici critici sono passatisti. Ma è altrettanto legittimo rilevare che il modo in cui le operazioni di potere sono codificate ha come conseguenza che si arriva spesso a costituire come referenza positiva un ordine precedente o conosciuto che dovrebbe, invece, anch’esso essere messo in discussione. Nel vocabolario contemporaneo, le operazioni di potere sono pensate in termini negativi, come qualcosa che ritira qualcosa a ciò che è già lì: il potere demolito, distrutto, smantellato, soppresso, fragilizzato. Nelle analisi sul neoliberalismo, per esempio, la razionalità neo-liberale è presentata come ciò che produce un’erosione delle istituzioni, un indebolimento dei valori che precedentemente servivano come quadri collettivi (le leggi statali, il diritto del lavoro, le norme morali, il welfare state,) o ancora una distruzione di qualcosa come il Comune, lo spazio pubblico, il politico, ecc. tutte forme tradizionali costituite eo ipso come dei riferimenti positivi. Prendiamo un altro esempio: i programmi di sorveglianza di massa. La critica degli Stati e delle agenzie di informazione consiste spesso nel mettere in discussione la loro tendenza a “smantellare” le protezioni tradizionali della vita privata e nel “rimettere in questione” i limiti al potere dell’intrusione dello Stato, nelle nostre vite e nella nostra intimità. In questo modo queste “protezioni” e queste “limitazioni” funzionano come criteri che utilizziamo per caratterizzare la negatività della situazione attuale. La retorica che prendo in esame è in atto in Francia in questo momento, con i dibattiti sullo “stato di emergenza”. A partire dagli attentati di novembre il governo ha dichiarato “lo stato di emergenza”, che conferisce molti più poteri alla polizia, all’amministrazione, a scapito del potere giudiziario. È senza dubbio molto grave. Ma la critica si limita spesso a dire che queste decisioni creano un margine di arbitrio rispetto al diritto comune. Partendo da qui, resistere a queste misure porta a valorizzare il ritorno al diritto comune, a presentare il giudice tradizionale come il garante della libertà e il potere giudiziario come un’istanza protettrice. Quando si critica una situazione qualificandola come eccezionale, si ha la tendenza a voler ritrovare, e quindi a conservare, l’ordine normale che era lì in precedenza, quando invece è precisamente quest’ordine che bisogna attaccare: il diritto comune, in realtà, contiene probabilmente la stessa arbitrarietà dello stato d’eccezione, ma noi non lo vediamo. Non nego, ovviamente, che possano esistere delle “regressioni” e che talvolta il passato possa essere giudicato “migliore” del presente. Ma se vogliamo elaborare una nuova mentalità politica, allora dobbiamo far emergere altre narrazioni del potere. Dobbiamo rinunciare a concetti “negativi” come “demolizione”, “distruzione”, “riduzione”, “precarizzazione”, “eccezione” ecc. Questo vocabolario conduce logicamente a costituire come norma uno stato anteriore dei rapporti di potere, a partire dal quale si enuncia la critica. Si tratta di una sorta di critica molto particolare, che suppone come condizione di enunciazione di non criticare (o di non fissare più come criticabile) la situazione anteriore dei rapporti di potere. Se partiamo da qui perdiamo a poco a poco terreno: l’ordine passato, che criticavamo, diventa non solo il riferimento positivo, ma è costruito come tale. Lo Stato guadagna gradualmente terreno. Mentre noi ci priviamo, in questo modo, di una capacità a immaginare un’altra configurazione possibile. Oggi le nostre modalità di azione, il nostro rapporto al tempo, la nostra narrazione del potere funzionano in modo paradossale: nel momento stesso in cui ci costituiamo come soggetto politico, ci costituiamo come soggetto dominato dal sistema del potere e dallo Stato. Questo spiega la ripetizione dei nostri fallimenti. Ispirazione Di fronte a una constatazione simile si potrebbe essere disperati. Non lo credo. Prima di tutto perché essere lucidi è molto meno deprimente che mentire a se stessi, stagnare e ripetere eternamente gli stessi errori. Ma anche e soprattutto perché la sperimentazione di nuovi modi d’azione politica non rileva dell’utopia. Al contrario: nell’attualità recente sono esistite delle intersezioni che potevano servirci come fonte d’ispirazione per reinventarci come soggetti politici. Una parte importante della teoria contemporanea concentra la sua attenzione sulle grandi e importanti mobilitazioni popolari come Occupy, gli Indignados o le primavere arabe. Ma ci si può chiedere se questa attenzione non porti a ratificare tutto quello che c’è di più tradizionale dal punto di vista politico, in termini di scenografia, di forme di azione, di categorie (il “Noi”, il “Popolo”, il “Collettivo”). Per questa ragione credo che sia forse possibile ridefinire la nostra vita politica ispirandosi ad altri esempi: penso ai gesti di Snowden, di Assange e di Manning, alle lotte contro la sorveglianza, alle fughe di WikiLeaks, ecc. Non sto sostenendo che questi modi di azione debbano essere elevati a modelli. Dobbiamo utilizzarli come strumenti per reinventare un’arte generale della non subordinazione, per re-imparare a batterci in tutti gli ambiti (economici, sessuali, urbani, ecc.). Cosa c’è in fondo di potente nelle vite di Snowden, Assange e Manning? Hanno istaurato una rottura con le regole imposte del gioco politico. Sono andati più in là in una forma di autonomia politica, in un’invenzione di se stessi al di fuori dei quadri prescritti. Hanno, prima di tutto, modificato il tempo politico: hanno preso lo Stato alla sprovvista. La contestazione è arrivata da dove lo Stato non se l’aspettava. I lanciatori d’allerta sono degli insider, dei conformisti, degli individui integrati nelle istituzioni e non degli outsiders o dei contestatari tradizionali. Snowden, Assange et Manning hanno anche imposto la loro agenda. Hanno posto delle questioni che lo Stato non voleva sollevare, che voleva perfino nascondere. Hanno agito, finalmente, secondo delle modalità che destabilizzano la democrazia liberale: si può menzionare il ruolo dell’anonimato, che è una maniera di rifiutare il carattere pubblico della politica, l’identificazione del soggetto dissidente e che mette in questione il funzionamento tradizionale dello spazio pubblico. Si può pensare ai gesti di sedizione di Snowden e di Assange, come a una volontà di sfuggire non solo al sistema penale ma anche alle appartenenze imposte e all’idea secondo cui dobbiamo sempre, in ultima istanza, riconoscere il diritto che lo Stato si conferisce, di giudicare le nostre azioni politiche e la loro legalità. Se vogliamo uscire dalla nostra impotenza politica e far emergere una nuova mentalità, credo che dovremmo assumere queste attività come fonti d’ispirazione. Non è certamente la sola strada. Ma una, e importante. Perché il nostro obiettivo deve coincidere con l’essere capaci di fare, in tutti gli ambiti, come loro: mettere lo Stato in situazione di de-possessione rispetto a noi e forzarlo a reagire a ciò che noi decidiamo di fare; inventare una pratica di resistenza che non riceviamo dalla storia ma che noi diamo a noi stessi – e che non sia più unicamente oppositiva ed espressiva, ma anche inventiva e attiva. In sintesi, elaborare una pratica politica autonoma – e, a partire da qui, perfino potente ed effettiva.

Geoffroy de Lagasnerie è filosofo e sociologo. Insegna all’Ecole Nationale Supérieure d’arts di Parigi-Cergy. È autore di Logique de la création (Fayard, 2011), La Dernière leçon de Michel Foucault (Fayard, 2012), L’Art de la révolte, Snowden, Assange, Manning (Fayard, 2015), Juger (Fayard, 2016)