Di Fulvio Vassallo Paleologo – Clinica legale per i diritti umani – Università di Palermo
Sono mesi in cui in Europa e nei paesi vicini che si affacciano sul Mediterraneo stanno cambiando molte cose. Alcune erano già prevedibili, come la deflagrazione delle politiche europee in materia di immigrazione e asilo, con la Commissione, il Consiglio, ed il Parlamento europeo, ormai incapaci di adottare decisioni nel rispetto delle procedure dettate dal Trattato di Lisbona e del principio di legalità e dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea. Dopo anni di politiche inefficaci e contraddittorie, culminate nel “Processo di Khartoum”, opera del governo italiano nel semestre di presidenza dell’Unione Europea, e definitivamente fallite alla Summit de La Valletta a Malta lo scorso novembre, si cerca ancora il bandolo della matassa dei rapporti tra l’Unione ed i paesi terzi. Adesso il Presidente della Commissione Juncker chiede un nuovo vertice “straordinario” dei capi di stato, per irrobustire ulteriormente politiche di contrasto e di esternalizzazione, che si sono già rivelate del tutto fallimentari.
Ormai è guerra globale ai migranti, dalla Nigeria dove opera Frontex, a Calais, dove i fascisti francesi si confondono tra le forze di polizia che si accingono a sgomberare la Jungle, dalla Libia, divisa tra tante fazioni che intrappolano i migranti, alla Danimarca ed all’Austria che sospendono il Regolamento Schengen, fino alla frontiera greco turca dell’Egeo, dove si arrestano e si mandano sotto processo operatori umanitari giunti da diverse parti d’Europa, mentre continua la strage di profughi nelle gelide acque di Lesvos e di Kos.
Partite difficili, che si giocano su scenari diversi, nei paesi di transito, nelle zone di guerra, nei territori dell’Europa di Schengen, nelle città soprattutto, dove cresce il consenso verso i partiti di destra e le formazioni neofasciste che li fiancheggiano. Piuttosto che tra i migranti appena arrivati, i veri rischi per la convivenza pacifica e la coesione sociale si annidano nel tessuto urbano dei paesi occidentali, luoghi di lacerazione crescente anche per effetto di una crisi economica devastante. Malgrado tutti gli annunci ottimistici, la crisi continua a mordere e i tracolli del sistema bancario ne sono una conferma, come del resto il tasso sempre assai alto di disoccupazione.
Proposte come quella di fare pagare agli stati l’infame accordo di collaborazione tra l’Unione Europea e la Turchia, o di aumentare il costo della benzina per finanziare il sistema di accoglienza, sono delle vere e proprie bombe a tempo che politici irresponsabili lanciano per garantirsi il loro miserabile vantaggio elettorale. Ed in vista delle elezioni non si lavora solo nelle capitali europee ma anche a Bruxelles, ognuno cerca di favorire la propria parte, anche se non partecipa direttamente alle competizioni elettorali nazionali. Come spiegare altrimenti l’attacco del presidente del gruppo popolare al Parlamento europeo nei confronti del governo italiano, proprio il giorno in cui Renzi aveva chiesto che l’Accordo tra l’Unione e la Turchia, patrocinato dalla Merkel, fosse finanziato con fondi europei e non con risorse provenienti dagli stati?
Lo “stato di guerra” alimenta le spinte più pericolose, dalla prospettiva di un intervento armato in Libia, caldeggiato dai vertici militari egiziani, fino alla caccia al “nemico interno” nei territori dell’Unione Europea, soprattutto dopo i recenti attentati. I rischi di una islamofobia di massa sono sempre maggiori, e la società civile europea rischia una frammentazione senza precedenti. Perché ormai gli immigrati e le comunità musulmane sono parte costituente della nostra società, e non saranno certo eliminabili con bandi o misure di stampo repressivo.
La vera sfida oggi sta tutta nella capacità di raccordare, nel rispetto delle differenze, di aumentare la conoscenza, l’ascolto, il confronto, di favorire l’inclusione, di costruire un fronte unico contro la violenza di qualsiasi matrice sia.
I migranti, in particolare i profughi di guerra come i siriani, o tutti i cristiani intrappolati in paesi musulmani dove spadroneggiano le milizie armate collegate all’ISIS, sono le vittime sacrificali di un gioco molto più grande di loro, persino delle loro tragedie personali e collettive.
Si può davvero dire che siamo nel corso di una guerra globale, di durata indefinibile, con tanti focolai che si possono riprodurre nei paesi più diversi, alimentata dalla crisi economica e dai risorgenti nazionalismi religiosi. In questa guerra le prime vittime sono i migranti, sballottati da una frontiera ad un’altra, ma nel bersaglio ci sono anche le popolazioni europee, soprattutto quando affidano il loro destino a governanti incapaci di prevedere e di affrontare con tempestività questioni che, se lasciate incancrenire, possono degenerare e diventare disastri irreversibili. La parola solidarietà con riferimento ai potenziali richiedenti asilo sembra diventata un tabù.
Le migrazioni sono sempre più migrazioni forzate, ed assumono i caratteri della tratta di esseri umani quando vi sono gruppi armati che negoziano i canali di passaggio delle persone in fuga, sostituendosi ai trafficanti o inserendoli nel loro sistema di dominio armato di territorio. Chi è costretto a partire, anche dalla Libia di oggi, non sceglie ma è costretto, e dunque a tutti coloro che arrivano da quel paese andrebbe riconosciuta una qualche forma di protezione internazionale o umanitaria.
In questa situazione non ha più senso di parlare di “contrasto dell’immigrazione illegale” o di “fermare i migranti prima che arrivino sulle nostre coste”, magari per tenerli in alto mare per settimane prima di respingerli, come sta facendo l’Australia, e come vorrebbe fare nel Mediterraneo il leghista Salvini, che ha dimenticato troppo presto la condanna subita dall’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo per i respingimenti collettivi ordinati da Maroni a partire dal 2009.
Nell’attuale situazione di conflitto a bassa intensità, ancora verificabile in Libia malgrado la formazione del nuovo governo, occorre evitare la tentazione di nuovi accordi di riammissione, ancora del tutto impraticabili, ed aprire canali umanitari che consentano un ingresso legale protetto e garantito per coloro che fuggono da guerre e persecuzioni. Un permesso di soggiorno per motivi di protezione temporanea va riconosciuto a tutti coloro che in questi giorni sono costretti a fuggire dalla Libia.
Occorre sospendere al più presto il Regolamento Dublino III che non garantisce una distribuzione equa dei richiedenti asilo nei diversi paesi europei, al punto che oltre il 70 per cento di loro si concentra in soli 5 paesi UE. Il Regolamento Dublino III ha fallito proprio perché non si è riusciti ad imporre a tutti gli stati dell’Unione Europea standard di accoglienza dignitosi e procedure che garantissero tempestivamente il riconoscimento di uno status legale.
Una partita decisiva dunque si gioca anche nei territori europei, sul fronte dell’accoglienza dei profughi, e dell’assistenza ai migranti che comunque hanno diritto ad uno status legale, senza essere scambiati per potenziali terroristi. Soltanto procedure di identificazione legate ad un rapido conseguimento di un permesso di soggiorno per chi ne ha diritto, e ad una immediata libertà di circolazione, possono evitare fenomeni di clandestinizzazione che avrebbero effetti davvero destabilizzanti. L’offerta del centro di accoglienza può anche non tenere conto della scelta individuale del richiedente asilo, al quale però andrebbe riconosciuto un documento di viaggio valido per tutta l’Unione Europea, una volta che la sua richiesta di protezione, e non solo sulla base della Convenzione di Ginevra, fosse accolta.
Per contrastare i cd. “movimenti secondari” già in atto non basterà certo aumentare i controlli alle frontiere interne, come si sta facendo con la sospensione del Regolamento Schengen. Occorre modificare al più presto il Regolamento Dublino III e consentire una circolazione controllata e legale, potremmo dire “protetta”, dei profughi che provengono dalle aree di crisi più martoriate, come siriani ed eritrei, irakeni ed afghani che arrivano in Europa lasciandosi davvero tutto alle spalle, spesso anche mogli, mariti, figli, genitori. Vanno intensificate le missioni di salvataggio in mare, e bisogna dare seguito ad operazioni di rilocazione legale in Europa che rispettino la volontà dei richiedenti asilo. Non si possono neppure dimenticare i milioni di migranti siriani intrappolati in Turchia, in Libano, in Giordania, per i quali da parte delle agenzie delle Nazioni Unite vanno individuate possibilità concrete di assistenza e di resettlement.
Occorrerebbe anche interrompere le pratiche di detenzione disumana e di respingimento indiscriminato, sia in Italia che nei paesi di transito, che non costituiscono una garanzia di blocco e di riduzione degli arrivi, ma alimentano circuiti criminali sovranazionali che vedono nei migranti utili strumenti per arricchirsi e finanziare l’acquisto di armi sempre più sofisticate. I tentativi italiani di riaprire i CIE (Centri di identificazione ed espulsione), come quello di via Corelli a Milano. non si possono certo giustificare con la richiesta europea di dare maggiore effettività alle operazioni di rimpatrio forzato, anche perché la Direttiva 2008/115/CE in materia di rimpatri, indica solo come estrema soluzione residuale il rimpatrio con accompagnamento forzato e trattenimento nei centri di detenzione.
E intanto Lampedusa torna ad essere luogo di sbarco e si arriva a mille migranti accolti nel Centro di primo soccorso ed accoglienza, oggi trasformato in Hotspot. La prima frontiera europea è sempre quella. E presto potrebbe diventare anche una retrovia di guerra.