di Alessandra Sciurba*
In un quadro complessivo in continua evoluzione e spesso molto difficile da decifrare, alcune tendenze generali possono comunque essere messe a fuoco per capire il contesto in cui ci troviamo ad operare in quella che è costantemente definita come l’attuale ‘crisi migratoria’.
Per comprendere cosa sta avvenendo, e soprattutto come le politiche migratorie e dell’asilo in Europa si stiano riorientando, pur in strettissima continuità con il passato, occorre fare un veloce passo indietro ai decenni immediatamente precedenti.
L’identificazione delle migrazioni come problema e pericolo, accompagnata da una costruzione discorsiva che ha costantemente falsificato la realtà, non è infatti una novità dell’ultimo periodo.
Tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio del 2000 abbiamo assistito ad una rappresentazione del tutto bugiarda delle modalità di arrivo dei migranti sul territorio italiano ed europeo.
La sovrarappresentazione mediatica degli arrivi via mare, per i quali specifici registri linguistici, di tipo idraulico (ondate, maree) o bellico (assalti, approdi), sono stati costantemente attivati dai media e dalle istituzioni politiche, ha sempre oscurato le reali proporzioni del fenomeno:
Dal mare e dalle frontiere più spettacolarizzate e pericolose, non è mai arrivato più del 20% dei migranti presenti sul territorio, mentre la maggior parte di essi hanno sempre fatto ingresso con visti turistici poi lasciati scadere, diventando overstayers.
Ma è esattamente questa proporzione che ad oggi appare invertita. Negli ultimi anni è avvenuto un cambiamento radicale della composizione e quindi dei percorsi dei movimenti migratori, per almeno tre ordini di ragioni:
• l’esplodere di conflitti ed estreme conseguenze di dittature quasi sempre legittimate quando non favorite dalle potenze occidentali
• lo mantellamento dei ‘cordoni’ di contenimento offerti dai paesi del Maghreb dopo le primavere arabe, e dai paesi confinanti ad Est con l’Unione europea
• il perdurare della crisi economica nei paesi cosiddetti economicamente più sviluppati in Europa
I primi due fenomeni spiegano come mai, rispetto al canale del Mediterraneo, si sia passati da un numero complessivo di attraversamenti pari circa alle 500.000 unità in 15 anni (dal 1999 al 2013), a più di 207.000 persone nel solo 2014, con un lievissimo decremento nel 2015 cui va sommato, però, il numero dei profughi che nell’ultimo anno stanno percorrendo la rotta balcanica, aumentati del 400% negli ultimi mesi.
Ciò che non è cambiato, e che un tempo non veniva esplicitato o veniva esplicitamente negato, è che queste rotte sono sempre state quelle delle persone in fuga dalle zone di guerra e di dittatura. Lo dimostra il crollo delle richieste di protezione negli anni dei respingimenti in mare attuati dall’Italia verso la Libia, poi fermati dalla sentenza della Corte Edu Hirsi Jamaa et al c. Italia, n. 27765/09.
Al perdurare della crisi economica va invece fatto riferimento per comprendere perché gli ingressi dai paesi di più tradizionale immigrazione che non appaiono direttamente colpiti da guerre e persecuzioni di massa siano costantemente diminuiti dal 2009 ad oggi, altra realtà sempre taciuta. I dati forniti da un recente rapporto Ocse raccontano come l’arrivo dei migranti non comunitari verso l’Unione europea sia diminuito del 12% dal 2008 al 2013. Questo crollo di ingressi riguarda soprattutto i paesi a Sud dell’Ue, Spagna e Italia in testa (22% e -19%), ma anche nel Regno Unito, ad esempio, il numero di migranti giunti nel 2012 è stato il più basso dal 2003.
Come risultato di questi fenomeni paralleli, quindi, la quasi totalità dei migranti che si sono incamminati verso l’Europa negli ultimi due anni sono persone in fuga dalle guerre e dalle dittature.
Pur continuando a combattere contro ogni strumentale distinzione tra migrazioni forzate e migrazioni economiche, e anzi opponendoci oggi più che mai all’utilizzo sempre più spietato di questa dicotomia secondo logiche che dirò a breve, non possiamo non guardare alla rinnovata centralità che i movimenti migratori di persone finoa ieri, se riuscivano a fare ingresso sul territorio, erano quasi automaticamente destinatarie di una forma di protezione internazionale sta assumendo nel riassetto delle politiche europee e mediterranee.
Questo semplice dato ha costretto ad esempio le politiche migratorie europee ad una tanto profonda quanto caotica ristrutturazione.
Per anni, esse hanno facilmente proceduto nel loro scopo ultimo di criminalizzazione e includere in maniera differenziale la maggior parte dei migranti attraverso leggi come la Bossi-Fini, rendendoli sistemicamente cittadini a diritti ridotti e forza lavoro facilmente selezionabile anche ai fini di indebolire i diritti di tutti gli altri lavoratori.
In questo contesto, la spettacolarizzazione e la strumentalizzazione dell’estetica degli arrivi dei profughi via mare, che rappresentavano la minoranza dei migranti, è stata volta a creare consenso attraverso la paura per legittimare l’inasprirsi delle leggi sull’immigrazione che andavo poi a colpire la maggior parte di tutti gli altri migranti.
Pensate alle martellanti campagne di invasione che hanno avuto come palcoscenico l’isola di Lampedusa prima dell’emanazione di tanti pacchetti sicurezza che hanno inasprito la legge sull’immigrazione italiana.
Di fronte ai mutamenti che ho prima sottolineato, però, negli ultimi due anni, questa strategia discorsiva non ha più funzionato in maniera così automatica. Prima era molto semplice massificare le persone arrivate dal mare come migranti irregolari da criminalizzare sulla base delle minacce alla sicurezza, da un lato, e della scarsità di risorse, dall’altro.
Ma le immagini della guerra in Siria o delle violenze del sedicente Stato Islamico hanno portato anche la parte meno attenta dell’opinione pubblica a legare in maniera diretta le guerre e il movimento delle persone. Insieme a questo, la gestione dei profughi ha ovviamente assunto una importanza inedita nel riassetto di equilibri geopolitici globali in profondo e rapido cambiamento.
Da qui un mutamento repentino di retoriche e di prassi, a cominciare da quelle che hanno sostanziato tutto l’apparato umanitario dispiegato a partire dal lancio dell’operazione Mare Nostrum dopo il naufragio del 2013 a Lampedusa.
La simbiosi tra l’umanitario e il militare, dispositivo antico e attivato in molti diversi contesti storici e geografici, non era forse mai stata affinata con tanta diligenza e precisione. Tale simbiosi si è mantenuta evolvendosi anche con il passaggio a Triton e poi con Eunavfor, addirittura ribattezzando col nome di Sofia, una bambina nata a bordo di una delle navi di salvataggio, questa missione militare che umanitariamente ha lo scopo ufficiale del sottrarre alla morte e allo sfruttamento dei trafficanti i migranti come soggetti vulnerabili. È questo linguaggio che ha avuto la potenza di svuotare profondamente il diritto d’asilo, forse più di quanto i respingimenti in mare del 2009 e del 2010 fossero riusciti a fare, trasformando i profughi aventi diritto in naufraghi da salvare o sopravvissuti per cui un orizzonte unicamente caritatevole può essere aperto, mentre le loro morti sono rappresentate come effetti collaterali di percorsi obbligati, di fronte alle quali noi siamo tutti spettatori senza alcuna responsabilità.
Una retorica umanitaria tanto pervasiva da essere utilizzata per sostenere una chiave di volta fondamentale che rappresenta un attacco, forse senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale, al sistema dei diritti umani da parte dell’Europa.
Sto parlando evidentemente dei processi di Rabat e di Karthoum, di cui uno degli atti fondamentali, la Conferenza Euroafricana di Malta, andata in scena in questi giorni, anche sicuramente per coprire interessi e contrattazioni che mai verranno formalmente dichiarati, e che riguardano ben altri movimenti che attraversano il Mediterraneo in questi anni, da quelli militari a quelli commerciali e logistici (che spesso si sovrappongono tra loro).
Non siamo così ingenui da sconvolgerci del fatto che in questo periodo i ministri Ue stiano negoziando con criminali di guerra ed efferati tiranni. I governi europei hanno sempre collaborato con le peggiori dittature, quando non ha direttamente lavorato per instaurarle e sostenerle.
Ma la modalità in cui lo stanno facendo adesso, in meeting ufficiali in cui siedono anche le principali organizzazioni umanitarie e con l’obiettivo dichiarato di decidere la sorte dei profughi insieme ai loro carnefici, è un fatto nuovo che ha una portata da pesare con attenzione. È un giro di vite che fa crollare tutti i tabù anche solo formalmente adottati fino ad oggi da un’Europa che ha costantemente narrato i fondamenti della propria identità come ancorati nella democrazia e nel sistema dei diritti umani.
Per comprendere fino a che punto questi processi siano ammantati di retorica umanitaria basti accennare alla Nota del Presidente del Consiglio Europeo che annunciava la Conferenza de La Valletta di questi giorni:
L’introduzione apre con quello che viene definito “l’incidente del 19 Aprile 2015” dove “centinaia di migranti hanno perso la vita”. Tale incidente, viene detto, chiama l’Unione Europea a un’azione immediata che si sarebbe iniziata a concretizzare nel meeting del Consiglio Europe del 23 Aprile del 2015, e che aveva come temi all’ordine del girono:
• Il rafforzamento della presenza in mare
• La lotta contro smugglers e trafficanti
• La prevenzione dei flussi migratori irregolari
• Il rafforzamento della responsabilità e della solidarietà interna
La strategia sarebbe quindi quella di trattare con i carnefici per evitare i naufragi, mentre si additano i trafficanti come se fossero i primi responsabili delle morti in mare, senza mai considerare che questi attori criminali si arricchiscono da decenni grazie alle politiche europee di chiusura delle frontiere e alla mancanza di canali legali di ingresso per i migranti.
(Individuare i trafficanti come fonte del problema è come dire che lo sfruttamento lavorativo dei migranti in Europa si fonda sul caporalato. Trafficanti e caporali sono solo i mezzi di un sistema che andrebbe invece smantellato nei suoi elementi fondamentali: le guerre e le politiche migratorie, da un lato, e la deregolamentazione del mercato del lavoro, dall’altro).
Il presupposto è poi che sarebbe possibile stabilire una distinzione netta tra immigrati irregolari e profughi, come esistessero percorsi diversi sulla base di categorie predefinite, negando la realtà delle migrazioni contemporanee e il ruolo delle politiche dei visti e delle frontiere che rendono ‘clandestini’, nelle loro migrazioni, anche quelli che, in numero sempre minore, riusciranno ad accedere alle procedure per la richiesta di asilo.
Ed è proprio a partire da questa aprioristica distinzione che si declineano ipocritamente la responsabilità e la ‘solidarietà’ interna tra Stati membri: non preoccupatevi, sembra essere il messaggio, la responsabilità di selezionare è condivisa, quella di accogliere è subordinata ai piccoli numeri che avranno accesso ai diritti.
Tutto il modello degli hot spot e della contrattazione tra Stati europei si basa su questo. Negli hot spot, come sta già succedendo, le persone vengono distinte in tempi rapidissimi tra aventi diritto ad accedere alla richiesta di asilo e ‘immigrati irregolari’ per i quali un percorso di respingimento viene immediatamente attivato, ma solo fromalmente. E da qui i proclami che annunciano 400.000 deportazioni di ‘falsi’ profughi verso i loro paesi di origine, legittimati dalla stesura di una sempre rinnovata lista di ‘paesi terzi sicuri’ in cui le persone potrebbero essere tranquillamente rimandate senza alcuna infrazione del principio di ‘non refoulement’ (art. 33 della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato), mentre viene spettacolarizzata, come fosse una grande vittoria del governo italiano, la ‘redistribuzione’ di 19 ‘veri’ profughi eritrei dall’isola di Lampedusa alla Svezia.
Nel frattempo, i principi di Dublino tornano ad essere applicati con maggiore zelo, almeno nelle dichiarazioni di intenti, mentre aumenta vertiginosamente il numero di dinieghi alle domande di protezione e le espulsioni sommarie.
Continueremo ad assistere, probabilmente, a nuove spettacolari deportazioni in cui l’Europa mostrerà il suo pugno di ferro, e a pochi spettacolari ‘ricollocamenti’ di richiedneti asilo in cui mostrerà invece la sua faccia umanitaria, ma credo saranno entrambi fenomeni residuali.
Perché il vero tema adesso, a me sembra essere il seguente: come fare a clandestinizzare una massa di profughi in fuga, così diversa da quella dei migranti dei decenni passati che erano tanto più facili da fare rientrare nella categoria delle migrazioni economiche? Una prima risposta sta nelle cose: negli ultimi due anni il sistema dell’asilo ha funzionato come uno dei principali meccanismi di illegalizzazione dei migranti.
Al di là delle conseguenze dello svuotamento del diritto d’asilo come diritto soggettivo perfetto, diritto umano fondamentale perché simbolico e concretissimo accesso a tutti gli altri diritti per le persone senza stato, l’effetto più evidente di queste politiche sarà un ritorno all’indietro su nuova scala. Mi spiego: come già accennato, per decenni, il sistema delle frontiere e dei visti è nei fatti, innegabilmente servito non a bloccare le migrazioni ma ad assorbirle nei territori europei attraverso meccanismi di inclusione differenziale resi possibili dalle leggi che producono la clandestinizzazione delle persone, o che le costringono a vivere sotto la costante minaccia di subirla. Meccanismi così essenziali da sfruttare in termini economici e demagogico-politici all’interno delle società di arrivo. Dopo un momento di stasi determinato dal decremento delle migrazioni tradizionali di cui ho già parlato, ecco che le nuove migrazioni della guerra sono un’occasione unica di rilancio. Ancora una volta, quindi, il problema non è che queste persone arrivino, non lo è mai stato. Il problema è che non arrivino come soggetti di diritto. E qui si torna alla domanda già posta: come si può clandestinizzare un profugo?
Proclamate espulsioni ed esternalizzazioni dell’asilo, da un lato, che verranno implementate con estrema violenza ma solo parzialmente e in periodi di tempo limitati e, dall’altro, nuova criminalizzazione di coloro i quali verranno dichiarati non aventi diritto: già centinaia di migliaia di persone nell’ultimo anno nei paesi che hanno accolto il maggior numero delle richieste di protezione internazionale. Alcuni di questi sono già pronti a farsi sfruttare nelle campagne siciliane, mentre tanti altri saranno in luoghi analoghi a svolgere attività simili in condizioni simili nel resto di Europa.
Eppure questo processo non è stato, non può essere e non sarà del tutto lineare.
Pensate a questa estate del 2015, al corto circuito tra le immagini della marcia dei migranti e la foto del piccolo Aylan. Pensate non tanto e non solo alla temporanea e controversa apertura della Merkel, ma alla reazione che questa apertura ha avuto sulle opinioni pubbliche di tanta parte d’Europa, a dimostrazione di quanto la distanza tra l’accettazione partecipe del fascismo e la costruzione entusiastica di un altro modello di convivenza a volte si possa percorrere in un giorno, anche senza attraversare troppe sfumature e senza conoscere e analizzare le cause reali delle azioni che ci colpiscono.
In conclusione, lascio spazio alle parole di Arendt, quando in Responsabilità e giudizio, interrogandosi sulle responsabilità del nazismo, e da qui sul significato ultimo della morale e dell’etica, scrisse: “la morale crollò o si afflosciò come un vuoto insieme di mores – usi, costumi, convenzioni che si possono cambiare quando si vuole – non a causa dei criminali, ma della gente ordinaria, che fino a quando le norme morali erano accettate da tutti non si sognò mai di mettere in dubbio ciò che le era stato insegnato”
In alcuni momenti queste dinamiche diventano particolarmente evidenti. Questa epoca storica potrebbe essere uno di quei momenti.
*Intervento svolto in data 12 novembre 2015