Il Libano e i richiedenti asilo nella municipalità di Tiro: la voce di un esponente di Amal

di Alice Pistolesi

Tiro, municipalità del Libano Sud – Non si può rimproverare al Libano di non avere nel proprio bagaglio culturale l’accoglienza di richiedenti asilo, ma forse in questo momento, per alcuni, è come se si fosse arrivati al ‘troppo che stroppia’.
Questi alcuni numeri: su 5 milioni di cittadini, oltre 1 milione sono rifugiati.
Per entrare nel particolare della zona a sud del Libano, nell’area al confine con Israele dove dal 1982 insiste la missione Onu Unifil, i rifugiati sono circa 95mila, su una popolazione di circa 235mila persone.
Tre i campi profughi palestinesi: El Buss di circa 11 mila persone, Burj Ash Shamali con 23mila e El Rachidiye di oltre 31mila.
Questi appaiono e sono definiti come dei veri ‘stati nello stato’. Al loro interno si sono infatti sviluppate vere e proprie città, praticamente indipendenti. Gli ingressi sono controllati dalle forze armate libanesi (Laf), mentre dentro il campo ha la propria ‘sovranità’ l’Olp (organizzazione per la liberazione della Palestina).
Ai palestinesi, realtà ormai consolidata, si sono negli ultimi anni aggiunti i profughi siriani, organizzati non in campi ma in modo meno stabilizzato: molti sono ospiti in famiglie, altri si sono riparati in baracche. In molti casi campeggiano i simboli Unhcr (l’autorità gestita dalle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati). Si parla in questa area di 33.390 persone, ospitate in 2.882 famiglie.
Dagli attentati di Beirut dell’11 novembre pare che sia stato istituito una sorta di coprifuoco, non ufficiale, ma attivo per i siriani. E’ infatti diffusa l’idea che sia necessario controllarli più da vicino.
Di questo quadro ha parlato Abed El Mohsen El Hussein, portavoce della municipalità di Tiro ed esponente del partito di Amal, in un incontro con alcuni giornalisti italiani partecipanti al corso organizzato dalla fondazione Cutuli.
«I palestinesi sono nella nostra terra da 65 anni e sono sistemanti in maniera quasi definitiva, questo non può avvenire con i siriani. Noi siamo stati ospiti in Siria per 33 giorni (durante l’offensiva israeliana del 2006, ndr) ma poi siamo tornati nelle nostre case. Dobbiamo fare di tutto per poter far rientrare anche loro».
Da qui infatti deriva l’appello di El Hussein all’Europa.
«E’ necessario bloccare la guerra in Siria, bloccare i finanziamenti a Arabia e Qatar che stanno investendo in armi per far vincere Isis. Ma il vero colpevole sono gli Stati Uniti che partecipano a questa illegalità e hanno trovato la via giusta per vendere le armi che producono. Serve una forza congiunta che fermi questa situazione».
I rifugiati per El Hussein si possono trasformare velocemente da innocenti a colpevoli, collusi con il sistema terroristico.
«La politica italiana – ha proseguito – è sbagliata, non si può accettare tutti senza controllo, perché potrebbero esserci terroristi. I rifugiati potrebbero essere comprati e addestrati». Una affermazione certamente legata ad una analisi interna. Chi arriva in Europa sta fuggendo dal Daesh, cerca salvezza e non ha assolutamente né mezzi né volontà di rigettarsi in condizioni di guerra.
I rifugiati sono diventati per il Libano un problema principalmente per l’accesso ai servizi, in primis sanità e istruzione.
«Ospitare per noi è stato un dovere ma il Libano non resistere così, stiamo sostenendo un peso enorme. Non auguriamo la stessa cosa a nessuno stato»
E la gestione dei servizi essenziali risente di questa situazione.
L’università, per esempio, è a numero ‘blindato’ e ci sono molti istituti privati nei quali studiare è davvero carissimo. Andare a scuola per molti bambini siriani è un problema, tanto che si sono costituite organizzazioni per sopperire a questa carenza.
Anche la sanità in Libano non è pubblica: non ci sono medici di famiglia e anche interventi di piccolissimo rilievo sono proibitivi per molte famiglie.
Moltissimi sono infatti i profughi siriani che si appoggiano agli aiuti, anche portati dalla missione Unifil nell’area. Ai Medical Care organizzati dai vari eserciti che partecipano alla missione accedono molti siriani, ma anche libanesi.
«In base alla mia esperienza – ha detto Giovanni Compagni, infermiere e maresciallo capo dell’esercito – ho potuto notare che i siriani vengono ai nostri controlli anche per influenze o per ricevere farmaci, mentre i libanesi arrivano più per altri tipi di intervento. L’impressione è quindi che il libanese possa permettersi e accedere alla cure base o che possa quantomeno comprare i farmaci per curare le malattie meno gravi e facilmente guaribili, i siriani no».
Il Libano, come gli altri paesi dell’area, sono in reali condizioni di “emergenza profughi”, con percentuali neanche commensurabili a quelle europee che da noi vengono trattate come fossero invasioni. Diventa quindi sempre più urgente che la comunità internazionale si faccia carico tanto di invertire la tendenza all’ampliamento delle zone di conflitto, quanto a garantire a chi sta sostenendo il carico maggiore, le risorse necessarie ad offrire un reale sostegno ai profughi che non porti al fallimento i paesi ospitanti.