Per un pacifismo pratico

di  Alessandro Dal Lago[1]

Le posizioni pacifiste sono solitamente contestate come “irrealistiche” in nome della “necessità” politico-militare, della “difesa”, del “contenimento” o della “neutralizzazione” delle minacce costituite, oggi, dall’estremismo islamico o dall’aggressività di poteri emergenti, stati “canaglia” o neo-nazionalismi. Le giustificazioni della spesa militare o dell’aggressività geo-politica occidentale sonno spesso pretestuose, ma resta il fatto che gli argomenti pacifisti tendono a rimanere vincolati a posizioni di principio o a ciò che Max Weber definiva i valori evangelici o la logica del Sermone della montagna. In altri termini, la cultura pacifista non sempre riconosce il fatto che anche la pace, o almeno la riduzione dei rischi e dei costi umani della guerra, può essere un obiettivo strategico e non una mera posizione di partenza o di principio. Con strategico intendo qui esclusivamente il fine ultimo di un’azione politica protratta nel tempo.

Si tratta insomma di entrare nel merito dei conflitti contemporanei – quelli seguiti alla caduta del muro di Berlino e quindi alla fine del bipolarismo globale e cioè dell’equilibrio del terrore. Quest’ultimo, dato il rischio evidente di una guerra nucleare tra i due blocchi mondiali (che avrebbe causato verosimilmente la fine dell’umanità), ha garantito per quasi cinquant’anni la pace in Europa, mentre la guerra convenzionale (o comunque il confronto politico-militare tra occidente e socialismo reale) si spostava nella cosiddetta periferia del mondo, in Corea, Vietnam, Palestina, Corno d’Africae così via. Con la fine del bipolarismo, i conflitti si sono moltiplicati, fino a coinvolgere l’Europa (guerra nei Balcani), mentre nuovi competitori entravano in scena, dotandosi oltretutto di un armamento nucleare (Israele, Pakistan, India ecc.). Con il multipolarismo o anarchia globale, dall’inizio degli anni Novanta del XX secolo fino a oggi, la logica della guerra è mutata radicalmente. Al confronto politico, economico, militare e ideologico tra due sistemi incompatibili di governo delle società è subentrata una competizione incessante tra attori plurali che può trasformarsi in ogni momento, e dovunque nel globo, in confronto armato e persino nucleare. In un famoso o famigerato saggio dei primi anni Novanta, S. P. Huntington ha definito questa nuova situazione come “scontro di civiltà”, una formula che tende a oscurare le ragioni pratiche, materiali e anche ideologiche, dei conflitti contemporanei.

Per cominciare, la “civiltà” (al pari di altri contenitori cognitivi, come religione o cultura) è un concetto troppo generico e soprattutto non può essere considerato la motivazione di un conflitto, ma la forma che esso assume in determinare circostanze. Per fare un esempio che ci proietta direttamente nella realtà post-11 settembre, l’Islam non è una civiltà o religione o cultura, ma un complesso di riferimenti religiosi spesso in conflitto tra loro (a partire dalla scissione più che millenaria tra sciiti e sunniti, per non parlare di diverse declinazioni o sette, come alawiti e drusi nel campo sciita, e wahabiti, salafiti, Fratelli musulmani ecc. in quello sunnita). Inoltre, il “radicalismo islamico” può essere il contenitore religioso o ideologico di rivendicazioni nazionaliste e persino anti-imperialiste, come mostrano, se si ha la pazienza di leggerle per quello che sono, le dichiarazioni programmatiche degli ideologi dell’estremismo islamico e persino di bin Laden.

Un discorso analogo si può fare per altre civiltà identificate sa Huntington, per esempio quella “cristiana ortodossa”. Tra le ragioni del costante attrito tra occidente e Russia, ci sono sicuramente la politica aggressiva della Nato nei Balcani, che ha contribuito a disgregare la repubblica federale jugoslava per annettersene successivamente i pezzi (Slovenia, Croazia e oggi Montenegro) e la volontà di rivalsa di Putin, dopo che la Russia era stata umiliata politicamene ed economicamente all’epoca di di Eltsin – ma non il ruolo della Chiesa ortodossa, che oggi funge meramente da alleata nella costellazione neo-nazionalista al governo della Russia di Putin.

E questo vale anche per l’altro grande feticcio del nostro tempo, il “terrorismo”. Come gli studiosi più seri di questioni militari ripetono da anni (almeno dall’epoca dell’invasione anglo-americana dell’Iraq nel 2003), il terrorismo non è un nemico che si può sconfiggere in quanto tale, ma una tattica o forma di lotta armata, che oltretutto è adottata, in determinare circostanze, da movimenti che non hanno nulla a che fare con la religione (resistenza anti-nazista, movimenti di liberazione nazionale ecc.) e persino, stando alle definizioni adottate dalle Nazioni unite, stati considerati legittimi.[2]

Se questo è vero, il concetto di “guerra al terrore”, coniato da G.W. Bush, dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, è un mantra privo di qualsiasi valore pratico, un’espressione ideologica che ha la sola funzione di mobilitare un’adesione cieca alla politica militare dell’Occidente (proprio come le giustificazioni dei bombardamenti occidentali in risposta agli attacchi di Parigi del novembre 2013).

Entrando nel merito della cosiddetta guerra condotta oggi dall’Isis, ai Al Qaeda e formazioni analoghe in Iraq, Siria e altrove, la reazione militare dell’Occidente è non solo foriera di nuove sventure per le popolazioni coinvolte, ma del tutto inefficace e anzi controproducente rispetto agli obiettivi proclamati. Come rivelano gli ostaggi dell’Isis liberati, i bombardamenti colpiscono in misura minima gruppi armati e militanti, mentre sono letali per i civili, che così sono spinti nelle braccia dell’Isis o di altre formazioni. Ciò fa sì che si produca una sorta di escalation senza fine, che assume pubblicamente (almeno in occidente) i contorni della “guerra di religione”, mentre in realtà è un complesso di conflitti motivati da ragioni di sovranità, controllo e appropriazione delle risorse, volontà di potenza locale e anche radicalismo religioso. Non solo: si deve ricordare che la politica di conquista occidentale nell’area dl pianeta che va dall’Oceano Atlantico al Pacifico (e comprende gran parte dell’Asia e dell’Africa) ha più di duecento anni. Che alla mera annessione territoriale del XIX secolo e della prima metà del XX sia subentrato, con la fine del colonialismo, il controllo diretto delle risorse strategiche (petrolio gas, acqua ecc.) non cambia la realtà dei fatti. Intendo la sovranità diretta o indiretta dell’Occidente in una parte decisiva del mondo e l’esportazione della guerra, con un numero incalcolabili di vittime civili. Solo la cecità ideologica può far ignorare la semplice conseguenza di questo squilibrio strategico plurisecolare, e cioè l’avversione radicata per l’occidente che, con il declino del marxismo e delle ideologie nazionaliste, assume oggi, fatalmente, il linguaggio dell’estremismo religioso.

Quale può essere dunque una strategia della pace in questa nuova situazione? Per cominciare, si tratta di mostrare come il bellicismo occidentale sia del tutto privo di obiettivi di lungo periodo, come la stabilità politica dell’Africa del nord o del vicino Oriente. Gli interventi in Iraq (1991 e 2003), Afghanistan (dal 2001 in poi), Libia (2011), Siria (dal 2011 in poi), per citare i principali, mostrano una caratteristica in comune: l’illusione che una guerra di durata limitata, e con poche perdite o nessuna per gli occidentali, possa risolvere crisi secolari. D’altra parte, l’occasionalismo delle strategie europee e americane non è che il frutto di politiche di lungo periodo adottate verso mondi giudicati inferiori e barbari. L’idea stessa di Nation-building (o State-building), che Stati Uniti ed Europa hanno cercato di applicare dopo le brevi guerre di conquista, cela a malapena un vero e proprio razzismo culturale. In questo senso, non c’è da meravigliarsi se le sbandierate attività di formazione giuridica, istituzionale, economica e così via in Iraq o Afghanistan siano fallite miseramente. E non deve meravigliare se, di fronte a quello che l’occidente sa offrire a paesi distrutti dai bombardamenti e dalle carestie, il richiamo a una religione arcaica e a un ordine assoluto gode di un favore crescente.

Il secondo obiettivo di una strategia della pace è senz’altro una lotta sul piano culturale contro gli stereotipi che governano non solo l’atteggiamento verso gli altri mondi, ma anche la percezione di sé da parte dell’occidente. Le conquiste materiali nell’economia e nella tecnologia non significano necessariamente una maggiore capacità di pensare lo sviluppo pacifico del globo. In questo campo l’occidente non può vantare alcun primato. Le guerre mondiali del XX secolo, che hanno causato più vittime civili di tutti i conflitti avvenuti dalla comparsa sulla terra di homo sapiens, non hanno nulla che fare con il fondamentalismo religioso, il fanatismo o il jihad. Sono uno sbocco di società straordinariamente progredite e per lo più laicizzate. Fare la guerra ed esportarla in tutto il globo non è un’eccezione, ma, a giudicare dalla storia di Europa e America degli ultimi cent’anni, una caratteristica strutturale della cultura occidentale (o, nelle parole di Huntington, della “civiltà” cristiana e liberale…)

Nella proclamata superiorità tecnologica ed economia dell’occidente rispetto ai fanatici islamici o ai “selvaggi” di due continenti c’è il segreto dei conflitti incessanti, che oggi si riverberano anche nella vita quotidiana dell’occidente. Esplosivi ad alto potenziale, bombe, missili o armi di distruzione di massa, cliniche o nucleari, non sono un’invenzione di arabi o islamici. Sono nostri strumenti omicidi di cui ci accorgiamo quando ne siamo occasionalmente le vittime. Dirottare aerei sui grattacieli, sparare sui civili in una discoteca o in centro per disabili è orribile, e come tale viene universalmente esecrato. Ma come giudicare allora i milioni di vittime civili in Iraq, Afghanistan e Siria, che gli stati occidentali hanno contribuito a uccidere, tacendo la propria responsabilità, e anzi inibendosi di pensarla? E come tacere sulla la politica di chiusura – delle frontiere e soprattutto della nostra intelligenza – nei confronti delle altre vittime, i profughi, dei conflitti in cui il nostro mondo è essenzialmente coinvolto?

Una strategia della pace non può che partire da una decostruzione radicale dei presupposti culturali e storici dell’inclinazione occidentale alla guerra. Rifiutare questi presupposti è il primo passo verso un disinnesco del risentimento che oggi si riversa sull’occidente, e di cui esso non sembra proprio essere consapevole.

 

 

 

  1. Questo testo riprende, in estrema sintesi, un saggio di prossima uscita presso la casa editrice Il melangolo, intitolato “Pacifismo pratico. Sun Tzu e la guerra al terrore”
  2. Tato per essere chiari, se l’Onu definisce, in sostanza, come terrorismo qualsiasi violenza armata che abbia di mira e coinvolga intenzionalmente i civili, ciò vale anche per alcune tattiche adottate durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, come i bombardamenti indiscriminati o l’uso dei droni.