Il Monopoli di Ponte Galeria: voci e volti da un CIE

di ADIF

Ci siamo trovati davanti all’ingresso del Centro di Identificazione ed Espulsione per migranti “irregolari” la mattina – erano da poco passate le 9 – e ne siamo usciti che erano quasi le 17. Una giornata di inverno grigio come le mura esterne, le sbarre acuminate e ricurve, il cemento grezzo delle camerate. Un grigio che avvolge l’esistenza e le speranze di chi nel Cie è recluso, con piccoli sprazzi in cui la vita insorge con la sua forza e spinge le giovanissime ragazze nigeriane a cantare e dare qualche calcio a un pallone sgonfio, o il giovane imam dal sorriso di bambino, rastrellato alla moschea di Centocelle, a salmodiare con voce tersa un passo del Corano.
Siamo potuti entrare grazie alla presenza parlamentare (con noi c’erano l’on. Stefano Fassina e l’eurodeputata S&D Elly Schlein, e aveva contributo a rendere possibile la visita Barbara Spinelli, eurodeputata del Gue-Ngl) e all’impegno della Campagna LasciateCIEntrare, di cui alcuni di noi fanno anche parte. Della visita si è dato conto in un comunicato stampa della Campagna, ma qui vogliamo provare a raccontare altro – fuori dal rigore della ricostruzione giornalistica: quel che resta addosso, quel che non si può dimenticare del Cie.
Per farlo, proviamo a usare l’immagine del Monopoli, il vecchio e popolare gioco da tavolo che tutti abbiamo giocato durante le Feste. Si arriva su una casella non per scelta ma per un tiro di dadi, e di lì ci si muove, nella speranza di finire su una casella “buona”, come via dei Giardini o Largo Augusto. Ma nel Cie le caselle “buone” non sono previste e qualcuno lancia sempre i dadi al posto tuo, così che non conosci, se non troppo tardi, l’esito del lancio, al quale comunque non puoi opporti. D’altra parte il risultato non è sempre univoco, è spesso anzi interpretabile e arbitrario. Non hai case o alberghi da edificare ma solo carte delle “probabilità” e degli “imprevisti”: il rischio di finire in prigione o di ritrovarti, in base al lancio, in un luogo peggiore di prima, peggiore persino della prigione. Finché non incappi nella casella “riparti dal via”, che per i migranti coincide appunto con il foglio di via.
L’altra possibilità, quella che forse riempie di maggior angoscia, è restare fermo per più turni mentre gli altri spariscono: attendere un documento che non arriva, un parente che ti dovrebbe aspettare, un avvocato che hai pagato e che dovrebbe farti uscire. Probabilità e possibilità. Ma bisogna immaginarlo, il tabellone da gioco, perché gli uomini e le donne che vi sono prigionieri ci vivono e ci dormono come in un reality show crudele, in cui la posta in gioco è il futuro- il proprio, e spesso anche quello della propria famiglia.

Oltrepassati i cancelli e l’ingresso presidiato da polizia, carabinieri, esercito, guardia di finanzia e unità cinofile – neanche si entrasse in un carcere di massima sicurezza per pluriomicidi – si ha accesso alla prima casella: una stanza in cui un giudice di pace (e quindi non togato), certamente non sereno in presenza di decine di divise e manganelli e spesso privo di nozioni specifiche sul diritto d’asilo, o un avvocato sovente nominato d’ufficio che si rimette alla volontà dell’autorità giudiziaria senza neanche ascoltare l’assistito e tuttavia guadagnando 120 euro a udienza, decidono se bisogna trattenere la pedina o meno.
Subito dopo c’è la stanza in cui puoi provare a chiedere asilo o protezione umanitaria, e l’ambulatorio in cui avere le scarse cure che possono essere prestate nel centro, mediche e psicologiche. C’è poi il locale angusto in cui – se li hai – incontri i tuoi parenti e le persone con cui hai legami affettivi, che per non farti sentire abbandonato si sottopongono alla trafila della richiesta di permesso in Questura. Ma non siamo in un luogo di visita: il centro, come tiene a ricordare la funzionaria di Polizia, serve a identificare e a espellere.

Questa, in effetti, è la funzione dichiarata già nel nome, anche se il solo scopo raggiunto dai Cie in sedici anni di esistenza è stato rinchiudere le persone come in un carcere, ma in assenza di reato, chiamandole ipocritamente “ospiti” o “trattenuti”. Due sono le prospettive di chi vi è detenuto: essere rimpatriato, vedendo così fallire il proprio progetto migratorio (ma anche quello non banale di salvarsi la vita), o essere rilasciato per mancata identificazione, per assenza del nulla osta per il rimpatrio, o per il mancato tempestivo reperimento di un vettore. Se si cade in quest’ultima casella, l’uscita dal gioco è solo temporanea. Il Monopoli allestito nel Cie prevede infatti un periodo di libertà costantemente soggetto a essere interrotto da un controllo di polizia o da una convocazione “trappola” in Questura per il ritiro di un qualche agognato documento. Ed ecco che ci si ritrova alla casella di partenza, davanti all’ingresso, con i cani che latrano nelle macchine-prigione e in mano l’ennesimo foglio di via.
Si torna dentro, si ripete la trafila e poi si esce un’altra volta con in tasca un invito/ordine a lasciare il paese in tempi brevi. Verso un dove indefinito, del tutto privi di mezzi economici e documenti, e spesso di un luogo dove dormire e di un amico o un parente cui chiedere un pasto.

Ma qualcuno prova ad ascoltare la voce delle pedine del gioco? Sono troppe, dissonanti e scomode, e soprattutto confermano l’assurdità giuridica, politica e morale della trappola in cui sono rinchiuse: un’assurdità fatta di sbarre, freddo, promiscuità, latrine rotte e violenza, ma soprattutto di speranze infrante.
Sono le voci di chi è stato strappato da un centro di accoglienza come il Baobab per la necessità governativa di far vedere che in Italia si è preso sul serio l’allarme terrorismo, anche se gli undici profughi tradotti nel Cie non avevano nulla a che fare con la jihad: erano semplicemente privi di documenti. Se fossero indagati per un reato, infatti, sarebbero stati arrestati.

Sono le voci dei transitanti. Di chi è stato fermato in una città italiana senza documenti e attende con terrore il passaggio di un volo charter gestito dall’agenzia europea di controllo delle frontiere FRONTEX per essere caricato e rispedito come un pacco in un paese da cui è fuggito per non essere perseguitato o sfruttato, ma che le autorità europee considerano un paese “sicuro”, con il quale l’Italia ha stabilito un accordo bilaterale di riammissione. Un paese che lo considera reietto e sgradito.
Sono le voci di chi è stato in carcere, ha pagato il proprio conto con la giustizia e si ritrova fra sbarre peggiori, con addosso la rabbia di chi subisce un’incomprensibile ingiustizia. O chi, avendo messo insieme piccoli lavori saltuari, viene sfruttato senza mai potersi mettere in regola, espulsione dopo espulsione, condannato a essere un fantasma. Sono le voci di chi semplicemente respira nella fortezza Europa senza un invito a entrare o un permesso a restare.

Sono le voci delle ragazze giunte dalla Nigeria, e per molte si fa difficoltà a capire se siano o meno maggiorenni. Hanno tutte attraversato mezza Africa e subito violenze prima nel deserto e poi in Libia, si sono imbarcate non sapendo quale sarebbe stato il loro futuro, e ad attenderle hanno trovato un foglio con la scritta “respingimento”, l’invito ad allontanarsi entro sette giorni dal territorio nazionale, e poi Ponte Galeria.
A settembre, una ventina di loro sono state rimpatriate a Lagos in violazione del diritto internazionale e della Convenzione di Ginevra. Altre, dopo essere riuscite a chiedere protezione umanitaria, hanno trovato forme provvisorie di accoglienza e attendono risposta dalla Commissione territoriale per l’asilo. In questa particolare sezione del Monopoli risultano bollate come già cacciate, dal momento che nessuno le aveva informate della possibilità di chiedere asilo al momento dello sbarco, e al tempo stesso richiedenti protezione umanitaria. Se a prevalere sarà la prima combinazione di dadi, la cui somma porta all’espulsione, si ritroveranno caricate su un volo per Lagos. Se a prevalere sarà la seconda, si apriranno due alternative (“probabilità e imprevisti”): il giudice ordinario revocherà il trattenimento e si ritroveranno – se va bene – in un centro di accoglienza in attesa di responso della commissione territoriale sulla loro domanda di protezione; oppure la misura di trattenimento verrà confermata e, in base al nuovo decreto legislativo 142/2015, potranno restare rinchiuse nel Cie anche un anno, prima in attesa del riconoscimento dello status e poi, se va male, in attesa dei risultati di un eventuale ricorso. Casella finale, di nuovo: attesa di un volo di rimpatrio, o altri imperscrutabili percorsi.

Sono tutte voci fragili – a volte urla, pianti, a volte ormai solo balbettii, o addirittura silenzio – di chi è fra le sbarre senza una chiara ragione, con storie frammentate, raccontate in maniera parziale, fitte di risvolti affettivi e percorsi esistenziali difficili da seguire, che avrebbero bisogno di ascolto, sostegno, ma soprattutto di una seria assistenza legale, perché si tratta di persone perse nell’incomprensione, propria e degli altri, in un sistema nemico e sordo, e i soli ottimi avvocati dell’associazione A buon diritto non possono reggerne il peso.

Si esce oppressi dal Cie, con il sollievo dato dalla fulminante battuta di un detenuto, da un sorriso ironico, da un ciao lanciato a mezza bocca, da due calci dati a un pallone sgonfio, e la vergogna di tornare nel mondo dei liberi sapendo che questi posti esistono. Solo una cosa si può fare, uscendone: dire a gran voce, sempre, ovunque – come il marinaio della Ballata di Coleridge – che questi posti esistono e che vanno chiusi. Perché servono solo a generare risentimento e sofferenza. Perché la loro stessa esistenza rappresenta una ferita per i nostri valori costituzionali: dignità, solidarietà, uguaglianza, libertà, asilo.