Meno liberi e neanche più sicuri. Una risoluzione del parlamento europeo e le ragioni del no

Il titolo è semplice e riflette apparentemente le condizioni in cui si percepisce l’UE dopo gli attacchi criminali di Parigi del 13 novembre scorso. Approvato con ampia maggioranza il 25 novembre è diviso in 10 aree per complessive 83 indicazioni è definito “Risoluzione sulla prevenzione della radicalizzazione e del reclutamento di cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche”. Interessante studiarne tanto i presupposti di riferimento quanto le indicazioni che ne derivano, sia per quello che vi viene detto che per quello che invece risulta assente. I media mainstream ne hanno fornito una ricostruzione sommaria, evidenziando gli aspetti che fanno più notizia. Qui proviamo ad analizzarne il testo intero e poi a trarne conclusioni. La risoluzione è stata approvata in seduta plenaria al parlamento europeo con 548 voti favorevoli, 110 contrari e 36 astenuti. Si poteva forse giungere ad una maggioranza più ampia, ma la presentazione di emendamenti che ne hanno aumentato gli aspetti inutilmente repressivi, in particolare quelli presentati dalla relatrice, la parlamentare francese Rachida Dati e la bocciatura di emendamenti che tendevano invece ad aumentare gli aspetti di prevenzione attraverso azioni sociali e a denunciare più apertamente il ruolo di alcuni paesi nel finanziamento al terrorismo, ne hanno ridotto il consenso. È stata lasciata in un certo senso libertà di coscienza per il voto e ad esempio il GUE/NGL ha votato in maniera difforme al proprio interno. In gran parte i suoi esponenti hanno espresso voto contrario, qualcuno favorevole, numerosi gli astenuti.
Si parte intanto da un presupposto lodevole che è quello di evitare connessioni fra terrorismo e profughi. Si afferma infatti che gli oltre 5000 che sono andati ad accrescere le fila di organizzazioni come ISIS (Da’ish), Jahbat al-Nusra e altre che sussistono in Medio Oriente e Nord Africa, (MENA) sono cittadini europei. Un fenomeno in crescita considerevole. Ma si parte già dall’idea (normale per chi si sente in guerra) che con il termine “radicalizzazione” si indichino persone che abbracciano opinioni, pareri e idee intolleranti suscettibili di portare all’estremismo violento. Fortunatamente ci si ricorda che “la radicalizzazione non deve essere associata a nessuna ideologia o fede, ma può verificarsi nell’ambito di ciascuna di esse” e che non è il solo islam a dover essere preso in considerazione. Si rammenta la strage del 2011 in Norvegia e che “secondo Europol, nel 2013 ci sono stati 152 attacchi terroristici nell’UE, di cui due di matrice religiosa e 84 motivati da convinzioni etno-nazionaliste o separatiste, mentre, nel 2012, si sono registrati 219 attacchi terroristici nell’UE, sei dei quali di matrice religiosa”.
Comunque verso la “radicalizzazione” che ha portato agli attacchi a Parigi, si chiede, ed è fondamentale, una maggiore coordinazione fra gli Stati membri dell’UE per “prevenire la radicalizzazione e contrastare il terrorismo”. Il confine fra opinioni, per quanto detestabili e gli atti che questi determinano, è labile e questa è una sconfitta capitale per il sistema di diritto europeo.
Ma parlando di minaccia terroristica è chiaro il nesso che intercorre fra tale pericolo e l’impegno militare in Medio Oriente e in Africa da parte di alcuni Stati membri, come è chiara la complessità delle motivazioni che generano tale radicalizzazione fra i combattenti europei. I due termini, terrorismo e radicalizzazione sono accomunati come causa di stereotipizzazioni in merito alle religioni e quindi provocano incremento di razzismo, xenofobia, intolleranza. Il testo approvato ritiene importante ricordare come sia l’uso perverso della religione e non la religione stessa a causare la radicalizzazione. E si considera – e questo è un dato positivo – come il fatto che l’Europa non è più percepita dai musulmani come un luogo in cui vivere in condizioni di parità e praticare la propria fede può produrre sensazione di vulnerabilità, rabbia, aggressività e frustrazione.
Gli elementi fondanti su cui si regge la risoluzione, risentono tanto dell’allarme sociale e politico, quanto del tentativo, a tratti maldestro di coniugare politiche preventive, repressive e di inclusione sociale in cui il binomio minore libertà in cambio di sicurezza sembra perennemente oscillante. Da una parte infatti tanti gli elementi di controllo che si vogliono inserire nella vita delle persone sospette di essere legate agli “ambienti in cui cresce la radicalizzazione” e tante le rassicurazioni di voler rispettare la differenza fra opinione e reato, per dirla con lo stesso testo “che è essenziale distinguere chiaramente tra i comportamenti finalizzati alla preparazione e/o al sostegno di attentati terroristici e gli atti o le opinioni di estremisti in cui non vi è “mens rea” e “actus reus””. Insomma trattasi di coniugare il diritto alla sicurezza con quello alla privacy, alla libertà di espressione, di religione, di associazione. E sempre citando i presupposti essenziali “il rispetto dei diritti fondamentali e delle libertà civili – vale a dire il diritto alla vita privata, il diritto alla sicurezza, il diritto alla protezione dei dati, la presunzione d’innocenza, il diritto a un processo equo e giusto, la libertà di espressione e la libertà di religione – è indispensabile in ogni misura presa dagli Stati membri e dall’UE; che la sicurezza dei cittadini europei deve preservare i loro diritti e le loro libertà; che questi due principi sono in realtà le due facce di una stessa medaglia”
Ma per la maggioranza del parlamento servono strumenti nuovi che, oltre a facilitare l’inclusione sociale e a prevenire il terrorismo permettano ai singoli Stati di operare nel pieno delle proprie prerogative ma di affrontare comunemente il problema anche mettendo a disposizione le informazioni all’intera UE, collaborando in materia di controllo informatico, investendo insomma parte delle proprie competenze in una nuova guerra, si fa anche un cenno alla necessità di cooperare nella lotta al traffico delle armi da fuoco.
Entrando nel dettaglio dei 10 settori di intervento ritenuti prioritari in cui è diviso il documento proviamo ad analizzarlo.
Valore aggiunto europeo nella prevenzione della radicalizzazione
Insieme alla condanna agli attacchi omicidi si condannano anche l’impiego di stereotipi e di parole e pratiche xenofobe e razziste da parte di singoli e autorità collettive che, direttamente o indirettamente, collegano gli attacchi terroristici ai rifugiati, si sottolinea che questo terrorismo non può essere associato ad alcuna “religione, nazionalità o civiltà specifica”.
Salvo poi parlare di escalation militare in Medio Oriente e Nord Africa e quindi si chiede uno studio globale per combattere il terrorismo e si invita la Commissione a definire un piano d’azione UE sulla base dello scambio di “buone prassi” (?) e di necessità di una comunicazione efficace e intensiva sulla prevenzione del reclutamento di cittadini europei e di residenti UE da parte di organizzazioni terroristiche. Ruolo importante riveste in tal senso la cooperazione transfontaliera e la formazione adeguata alle forze di polizia sul campo. Chiede in tal senso che siano integralmente resi noti i piani di azione e le linee guida del Consiglio sull’attuale e ritiene che il protocollo aggiuntivo alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo, come la risoluzione 2178 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ratificata in sede UE il 15 marzo 2015, dovrebbero essere utilizzati per definire i canoni che possono permettere di incriminare le persone considerate come (foreign fighters) “combattenti stranieri” utilizzando il nuovo centro di eccellenza della rete RAN.
Si invita inoltre la Commissione a preparare, insieme ad Europol, e con il coordinatore antiterrorismo, una relazione annuale sullo stato di sicurezza in Europa. I mezzi saranno resi disponibili grazie al Fondo per la sicurezza interna (FSI) attraversi il suo sistema di polizia SIF.
Prevenire l’estremismo violento e la radicalizzazione terroristica nelle carceri
Una attenzione interessante rispetto all’ambiente carcerario, ritenuto il luogo dove possono diffondersi le ideologie radicali e violente. Anche qui si invita a scambiarsi buone pratiche intervenendo soprattutto contro il sovraffollamento carcerario ma contemporaneamente suggerisce misure come l’isolamento dei detenuti di cui si accertata l’adesione all’estremismo violento. Si richiama al controllo, per tali misure, dell’autorità giudiziaria e chiede misure proporzionate che rispettino i diritti del detenuto. Chi conosce i penitenziari di molti Paesi europei sa bene quanto in questo campo subentri un elemento di forte discrezionalità.
Si propongono formazioni specializzate per il personale penitenziario, quello religioso e quello delle Ong che interagiscono con i detenuti per prevenire il diffondersi dell’estremismo radicale per rispondere alle necessità culturali e spirituali nel carcere in maniera da controbilanciare la potenzialità del discorso radicale. Per questo si incoraggia l’istituzione di programmi educativi adeguatamente finanziati volti a favorire il senso critico e offrire speciale assistenza ai giovani, alle persone vulnerabili arrivando a chiedere misure di accompagnamento dopo il rilascio dal carcere. Ma per questo serve un carcere radicalmente diverso da quello a cui siamo abituati non solo in Italia, conforme non solo alle norme internazionali ma alle regole minime dell’ONU che da noi ancora non sono rispettate.
Prevenire la radicalizzazione terroristica su internet
Ci si accorge di come, più che la caccia nelle moschee, sia la rete il luogo su cui più si ritrovano le organizzazioni radicali, senza frontiere fisiche o la necessità di avere basi in un determinato paese. Al di là del richiamo ad una istruzione e a campagne di sensibilizzazione del pubblico a prevenire la radicalizzazione su internet e della volontà di difendere la libertà di espressione, si chiede una strategia efficace per individuare ed eliminare i contenuti illeciti che istigano all’estremismo violenti nel rispetto dei diritti fondamentali e della libertà di espressione. Fa effetto: da anni, operatori dell’informazione e attivisti combattono contro i gestori di social come Facebook per vedere eliminati centinaia di siti inneggianti all’odio razziale. La risposta che giunge di fronte ad una segnalazione è che i contenuti non sono in contrasto con la comunità di riferimento. Varrà ancora e per tutti? Ci si richiama alle responsabilità legali dei fornitori di servizi. Nel testo approvato si “ritiene che gli Stati membri dovrebbero prendere in considerazione azioni legali, anche di tipo penale, contro le imprese di internet e dei media sociali nonché i fornitori di servizi che si rifiutano di ottemperare a una richiesta amministrativa o giudiziaria per eliminare contenuti illegali o apologetici del terrorismo sulle loro piattaforme internet; ritiene che il rifiuto di cooperare o la deliberata mancanza di cooperazione da parte delle piattaforme internet che consentono la circolazione di tali messaggi dovrebbero essere considerati un atto di complicità che può essere equiparato al dolo e che in tali casi i responsabili dovrebbero essere assicurati alla giustizia” e si “invita la autorità competenti a garantire che i siti web che istigano all’odio siano sottoposti a un più rigoroso monitoraggio”. Programmi di formazione rivolti ai giovani e elaborazione di un discorso di contrasto anche nei paesi terzi, nella regione del MENA e sostenendo iniziative come SSCAT (Syria Strategic Communication Advisory).
Al punto 22 si appoggia l’introduzione di misure che consentano agli utenti di internet di segnalare i contenuti illegali e di informare le autorità competenti, anche tramite linee dedicate a seguire si esprime preoccupazione “per l’espansione dell’uso di tecniche crittografiche da parte di organizzazioni terroristiche, che rendono le loro comunicazioni e la loro propaganda di radicalizzazione non rilevabile e non leggibile dagli organi di repressione, anche con ordinanza giudiziaria; invita la Commissione a occuparsi di tali problematiche nelle sue interazioni con imprese di internet e delle tecnologie dell’informazione”. Agghiacciante che questo problema emerga solo dopo gli attentati del 13 novembre, come inquietante è la richiesta agli stati membri di predisporre una unità speciale incaricata di segnalare i contenuti illeciti su internet per agevolarne individuazione e soppressione. La nascita in Europol della IRU (Internet Referral Unit) che dovrà individuare i contenuti illegali va in tal senso ma è curioso che finora i gestori di social abbiano taciuto o assecondato Dal 1 gennaio 2016 sarà istituito un Centro europeo antiterrorismo di cui farà parte l’unità europea addetta alle segnalazioni su internet. Si chiedono finanziamenti a tale scopo ma restano indefiniti i limiti di tale impiego in sistemi di controllo. Si chiede il rafforzamento del mandato e delle risorse del Centro europeo di lotta contro la criminalità informatica, sulla scorta di Europol ed Eurojust, si rimanda alla necessità di esperti formati presso Europol e invita il VP/AR a riorganizzare il Centro di situazione UE e il Centro di analisi dell’intelligence a garantirne il coordinamento con il coordinatore Ue per la lotta contro il terrorismo. E la domanda che sorge è: ma queste agenzie e questi uffici di cui raramente si sente parlare, cosa facevano mentre fra Belgio e Francia si preparava l’inferno?

Prevenire la radicalizzazione grazie all’istruzione e all’inclusione sociale
Si tratta di elementi che pur enfatizzando il ruolo positivo che possono essere svolti, in chiave preventiva, dalla scuola, nella sua specifica funzione di promuovere la non discriminazione e a sviluppare il senso critico, invita a far si che nelle scuole si incoraggino e si predispongano corsi e programmi accademici volti a incoraggiare la comprensione e la tolleranza, soprattutto nei confronti di religioni diverse, la storia delle religioni, le filosofie e le ideologie, l’esigenza di insegnare i valori fondamentali e i principi democratici dell’Unione ma evidenzia come spetti agli “Stati membri assicurare che i loro sistemi scolastici rispettino e promuovano i valori e i principi dell’UE e che il loro funzionamento non contrasti con i principi di non discriminazione e integrazione”. Un percorso anche lodevole nelle intenzioni che non tiene conto di come in molti Paesi fra cui l’Italia, la scuola confessionale sia diffusa anche se non legata all’islam. Si sollecitano gli Stati a garantire programmi educativi sull’utilizzo di internet, di mettere in grado gli insegnanti di opporsi attivamente a tutte le forme di razzismo e discriminazione, chiede insomma insegnanti competenti, in grado di affrontare una sfida alta. Chissà quanto questo si interseca con l’italiana “Buona scuola” in cui il ruolo degli insegnanti è ridimensionato. Si chiede insomma giustamente che sulla scuola come strumento di promozione e di risoluzione preventiva dei conflitti si investa, ma resta agli Stati, vincolati dai propri bilanci e dalle proprie scelte politiche, farlo o meno. Sempre secondo il testo il personale docente dovrebbe divenire “capace di individuare eventuali cambiamenti di comportamento sospetti, nonché di identificare i circoli di complicità che amplificano il fenomeno della radicalizzazione”. Si incoraggiano gli Stati membri a predisporre investimenti a favore di strutture specializzate situate in prossimità delle scuole che siano punto di contatto utili a giovani, le loro famiglie, gli insenanti, gli esperti interessati per attività extrascolastiche evitando che venga direttamente coinvolta l’autorità pubblica, elemento che potrebbe rivelarsi controproducente.
Un programma su cui si vorrebbe insistere è quello di “Europa creativa” utile per contrastare le diseguaglianze e prevenire l’emarginazione attraverso la promozione dei valori europei nel campo dell’istruzione, quindi valorizzando attività come “Europa per i cittadini” ed “Erasmus +
Ovviamente si dedica spazio al dialogo interculturale con le diverse comunità religiosi, chiedendo da una parte di intervenire sulla formazione –possibilmente in Europa – dei leader religiosi, garantendo che tali leader condividano i valori europei, che ciò accada anche nei centri di detenzione. Si sottolinea il ruolo dei luoghi di culto (ovviamente è sottointeso che si parla soprattutto di centri islamici), si comprende che non è in questi luoghi che crescono odio o terrorismo ma in ambienti più informali come la rete. Peccato – e non è una questione soltanto italiana – è difficile avere luoghi di culto riconosciuto grazie ad una pratica islamofobica delle autorità locali e anzi, si sta espandendo anche in paesi finora più immuni l’idea che chiudere una moschea allontani il pericolo.
Interessante la richiesta di sostenere, attraverso ONG e associazioni al fine di sostenere tanto le vittime del terrorismo e le loro famiglie quanto gli individui che hanno “subito processi di radicalizzazione”. Anche qui si parla di sostegno finanziario da implementare che andrebbe però separato da quelli destinati per i programmi anti- terrorismo.
Il ruolo della società civile è considerato fondamentale, come la necessità di investire nella formazione dei “lavoratori in prima linea” (insegnanti, educatori, agenti di polizia, operatori che si occupano della protezione dei minori e lavoratori del settore sanitario) e tanti sono gli ambiti di intervento possibile ma che, secondo il documento, dovrebbero poter contare su programmi sociali di investimento a lungo termine.
Si propone la realizzazione di un “sistema di allarme e orientamento in ogni Stato membro che consenta alle famiglie e ai membri della comunità di ottenere sostegno o di segnalare facilmente e rapidamente cambiamenti improvvisi di comportamento indicativi di un processo di radicalizzazione o la partenza di un individuo intenzionato ad aderire a un’organizzazione terroristica; osserva a questo proposito che le “hotline” hanno avuto successo e consentono di segnalare tra amici e famiglie le persone sospettate di essere radicalizzate, ma aiutano anche amici e famiglie ad affrontare questa situazione destabilizzante”.
Si considera di nuovo l’islamofobia in crescita come elemento che crea un terreno fertile per “l’arruolamento di persone vulnerabili nelle organizzazioni estremiste” e si chiede di combattere tale discriminazione che ostacola l’accesso all’istruzione, all’occupazione, all’alloggio.
Una particolare attenzione è rivolta alle donne. Aumenta il numero di ragazze che viene reclutato e per questo si impongono strategie mirate di prevenzione. Si chiedono alla Commissione programmi di vasta portata per favorire l’integrazione, l’eguaglianza e a prevedere reti di sostegno.
Rafforzare lo scambio di informazioni sulla radicalizzazione del terrorismo in Europa
Si tratta di uno dei punti su cui si è più accentrata l’attenzione. Si mette a punto una apposita direttiva UE sul codice di prenotazione per viaggi (Passenger Name Record, PNR) entro la fine del 2015, conforme ai diritti fondamentali, priva di pratiche discriminatorie. Si invita la Commissione a potenziare le competenze UE nell’ambito della prevenzione, istituendo una rete europea che integri le informazioni fornite dalla RAN e dalla rete dei pianificatori delle politiche sulla polarizzazione e la radicalizzazione (PPN) e le informazioni provenienti da esperti specializzati in un’ampia gamma di discipline appartenenti alle scienze sociali.
Il testo si sofferma sulla necessità di migliorare in rapidità ed efficacia lo scambio delle informazioni fra le autorità di contrasto degli Stati membri e le agenzie competenti, ottimizzando il ricorso al sistema d’informazione Schengen (SIS), al sistema d’informazione visti (SIV) e all’applicazione di rete per lo scambio di informazioni (SIENA) di Europol e al punto focale “Travellers” sui “cittadini europei radicalizzati”. Fra le strutture che dovrebbero veder accresciuto il proprio ruolo c’è l’Accademia europea di polizia (CEPOL) che dovrebbe fornire un adeguato addestramento.
L’intervento richiesto è molto forte nel campo della Giustizia mediante un programma europeo di formazione specializzata per i professionisti del settore giudiziario e attuando una migliore rendicontazione a livello europeo del casellario giudiziale dei “sospetti terroristi”. Si esorta quindi a procedere alla riforma del sistema europeo sui casellari giudiziali (ECRIS) e si chiede alla Commissione di istituire un indice europeo dei casellari (EPRIS), rispettando la tutela dei dati personali.

Rafforzare le misure di deterrenza contro la radicalizzazione del terrorismo
Si chiedono strumenti di giustizia penale efficaci, dissuasivi e articolati e si ritiene che qualificando come reati gli atti terroristici commessi all’estero, gli Stati membri si doteranno di strumenti per eliminare il fenomeno della radicalizzazione fra i cittadini europei usando gli strumenti di cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale già esistenti in UE. Ma si chiede anche che le autorità di contrasto e quelle giudiziarie (giudici e PM) dovrebbero disporre di capacità sufficienti per prevenire, individuare e perseguire, ricevendo anche formazione adeguata e continua e a tal proposito vanno rafforzate le capacità del centro di coordinamento di Eurojust e a tale proposito secondo il testo, si dovrebbe fare uso maggiore di squadre investigative comuni sia fra gli Stati membri che con paesi terzi con cui Eurojust ha raggiunto accordi di cooperazione.
La richiesta è quella di produrre accordi di cooperazione in materia giudiziaria, per raccogliere anche prove nei paesi terzi. Fortunatamente si ricorda che “il ricorso a trattamenti crudeli, inumani o degradanti, tortura, consegne extragiudiziali e rapimenti è proibito ai sensi del diritto internazionale e che predette pratiche non possono essere messe in atto per raccogliere prove su reati commessi da cittadini dell’Unione all’interno o all’esterno del territorio dell’UE”.
Occorrono quindi accordi di cooperazione con i paesi terzi sulla scia di quelli conclusi con USA, Norvegia e Svizzera attraverso l’invio di procuratori di collegamento nei paesi MENA per aumentare lo scambio di informazioni nel rispetto e nella tutela della privacy
Prevenire la partenza e anticipare il ritorno dei cittadini europei radicalizzati reclutati dalle organizzazioni terroristiche
La richiesta è quella di predisporre d’urgenza controlli alle frontiere esterne, demandati ovviamente agli Stati membri, che debbono diventare obbligatori e invita gli stessi a utilizzare meglio strumenti già esistenti come SIS e VIS, anche in relazione ai passaporti rubati, smarriti, falsificati. Insomma una applicazione “rigorosa del Codice Schengen”.
Si invitano gli Stati membri a fornire alle guardie di frontiera un accesso sistematico al sistema d’informazione di Europol che contiene informazioni sulle persone “sospettate” di terrorismo, di essere combattenti stranieri o predicatori d’odio.
Un controllo informatizzato insomma per chi viaggia che si possa tradurre anche in congelamento dei beni finanziari dei sospetti, norme di rimpatrio in UE, confisca dei passaporti – ovviamente su richiesta dell’autorità giudiziaria- partendo dal fatto che la limitazione della libertà di movimento di una persona possa essere deciso soltanto dopo attenta valutazione.
In questa parte del documento si chiedono contributi internazionali al meccanismo di finanziamento sostenuto dal Programma ONU per lo sviluppo (UNDP) per facilitare la stabilizzazione delle zone liberate dal Daesh. Ed è l’unica parte del testo in cui chiaramente si chieda di trovare un “linguaggio chiaro di condanna del sostegno finanziario e ideologico decennale che alcuni governi e personalità di spicco dei paesi del Golfo hanno offerto ai movimenti estremisti islamici” e si invita la Commissione a rivedere le relazioni UE con i paesi terzi per ostacolare il sostegno materiale e immateriale al terrorismo, potenziando, nella revisione della politica europea di vicinato (PEV) il tema della sicurezza.
Si torna poi a chiedere un utilizzo corretto degli strumenti già esistenti (SIS, SIS II e VIS, il sistema SLTD di Interpol e il punto focale Travellers di Europol, per individuare i cittadini UE o in essa residenti che potrebbero tornare da zone di conflitto o di addestramento.
Ovviamente coloro che sono individuati come combattenti stranieri, al rientro in Europa, vanno sottoposti a controllo giudiziario e in caso a detenzione amministrativa fino all’avvio del corrispondente procedimento giudiziario. Ma queste misure vanno – a detta del testo – inserite in un approccio strategico combinandosi anche con politiche sociali (l’occupazione, l’integrazione e la lotta contro la discriminazione) e assistenza umanitaria (sviluppo, risoluzione dei conflitti, gestione delle crisi, commercio, energia e di qualsiasi altro ambito strategico che possa avere una dimensione interna/esterna).
Rafforzare i legami tra sicurezza interna ed esterna nell’UE
Si ribadisce l’importanza della cooperazione fra UE e paesi terzi, per individuare coloro che vanno a combattere nelle organizzazioni terroristiche e fanno poi ritorno, aumentando le relazioni bilaterali con organizzazioni regionali come l’Unione africana e la Lega degli Stati arabi; si prende atto della volontà manifestata di sostenere i progetti di contrasto alla radicalizzazione in Giordania, Libano, Iraq e regione Maghreb/Sahel, come indicato nella relazione presentata al Consiglio europeo il 12 febbraio 2015 chiedendo che tali programmi ricevano al più presto adeguati finanziamenti; si invita l’UE ad aumentare la cooperazione per fermare il traffico d’armi, in particolare incentrandosi sui paesi da cui proviene il terrorismo, e a seguire attentamente le esportazioni delle stesse che potrebbero essere utilizzate dai terroristi.
Ci si rende conto che vanno potenziati gli strumenti di politica estera, rimandando alle conclusioni del vertice G20 del 16 novembre 2015, in cui si invita il Gruppo d’azione finanziaria internazionale (GAFI) ad attivarsi con maggiore rapidità ed efficacia quando interviene per bloccare i finanziamenti a organizzazioni terroristiche. Sono individuati tanto i paesi con cui cooperare in materia di sicurezza e lotta al terrorismo “l’Algeria, l’Egitto, l’Iraq, Israele, la Giordania, il Marocco, il Libano, l’Arabia Saudita, la Tunisia e il Consiglio di cooperazione del Golfo, anche riguardo al coinvolgimento passato o presente di Stati a sostegno di attività terroristiche; reputa altresì che la cooperazione con la Turchia dovrebbe essere potenziata in linea con le conclusioni del Consiglio “Affari generali” del dicembre 2014”
Si chiede al Consiglio di rivedere la strategia regionale per Siria e Iraq, parallelamente ad iniziative preventive come la RAN della Commissione.
Ci si sofferma sulla necessità di potenziare le competenze linguistiche, ad esempio in arabo, urdu, russo e mandarino, per migliorare le capacità di intelligence e contemporaneamente avere una più ampia strategia comunicativa nella lotta contro il terrorismo. In tal senso viene ribadito il ruolo del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE).
Più di un punto è impiegato per definire il pericolo terrorista e di radicalizzazione nella sua dimensione globale per cui si propone di intervenire a sostegno dei paesi della regione MENA, nei Balcani occidentali che intendono cooperare per individuare chi si arruola nelle organizzazioni jihaediste. A tale scopo la Commissione aveva già stanziato 10 milioni di euro nell’aprile 2015 per contrastare la radicalizzazione nel Sahel/Maghreb e arrestare il flusso di combattenti dalle altre aree suddette. 5 milioni di euro sono già disponibili per finanziare l’assistenza tecnica e rafforzare le capacità della magistratura, una seconda tranche è destinata a programmi di contrasto alla radicalizzazione. Ci si sofferma sulla necessità di monitorare in merito all’utilizzo di detti fondi perché non finiscano con l’essere utilizzati per scopi opposti.
Promuovere lo scambio di buone prassi sulla de-radicalizzazione
Di fatto si tratta di “evitare che i cittadini dell’UE e i cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nell’UE lascino l’Unione o per controllarne il ritorno sul suo territorio”; introdurre la figura di tutori o consulenti nel processo di de-radicalizzazione dei cittadini dell’UE che hanno fatto ritorno dalle zone di conflitto delusi delle esperienze vissute; definire “una campagna di comunicazione strutturata a livello europeo, che si serva dei casi di ex “combattenti stranieri” che hanno già seguito un percorso di de-radicalizzazione e le cui testimonianze traumatiche per privare la retorica radicale di ogni valore religioso o ideologico; suggerisce che tale campagna sia utilizzata come strumento di ausilio nei processi di de-radicalizzazione all’interno delle carceri, delle scuole e in tutte quelle strutture dove si fanno prevenzione e riabilitazione.
Smantellare le reti del terrorismo
Gli strumenti proposti partono dal presupposto che le fonti di finanziamento del terrorismo siano diversificate, dai reati fiscali, alle risorse accumulate in Iraq e Siria con il contrabbando di petrolio (?) e con la vendita di oggetti rubati, con i rapimenti e le estorsioni, dal sequestro di conti bancari e dal contrabbando di antichità. “Invita pertanto a individuare tutti i paesi e gli intermediari che operano in questo mercato nero e a bloccarne le attività quanto prima”. Ma il centro della proposta è un intervento comune di controllo sulla circolazione di capitali di dubbia provenienza per giungere a bloccare i canali di finanziamento e si invita la “Commissione a riconsiderare la possibilità di creare un sistema europeo comune di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi; incoraggia gli Stati membri ad attuare i più elevati standard di trasparenza per quanto riguarda l’accesso alle informazioni sui titolari effettivi di tutte le strutture societarie presenti nell’Unione e nelle giurisdizioni poco trasparenti, che possono costituire canali di finanziamento delle organizzazioni terroristiche”. I conti da tenere maggiormente sotto controllo sono ovviamente quelli intestati a cittadini di paesi terzi ma residenti in Europa. Una politica di intervento comune che incontrerà certamente la resistenza dei singoli Stati. Uno strumento in più oggi a disposizione è il Centro europeo antiterrorismo, presso Europol, ma anche per questo si chiedono risorse finanziare. Un nervo scoperto resta quello della legislazione UE sulle armi da fuoco, si chiede infatti di rivedere la direttiva 91/477/CEE, per facilitare l’intervento degli organi di polizia nazionali per individuare e colpire il traffico d’armi sul mercato nero e si propone alla Commissione di definire norme comuni per la disattivazione delle armi da fuoco. Occorre secondo il parlamento europeo, un approccio armonizzato per definire come reato l’incitamento all’odio online e offline, si invitano gli Stati membri a garantire e dare prova di trasparenza nelle “relazioni che intrattengono con taluni paesi del Golfo, in Africa e in Medio Oriente ma anche con “talune organizzazioni in Europa”(il tema è trattato debolmente), ma gli stessi Stati membri dovrebbero collaborare per eliminare il mercato nero del petrolio e a questi si chiede di non esitare a prendere provvedimenti restrittivi nei confronti di singoli o organizzazioni qualora vi siano “prove credibili” di finanziamento ad attività terroristiche.
Accanto a queste proposte, ritenendo inutile e controproducente spezzare il legame fra lotta contro la radicalizzazione e contro le sue manifestazioni invita il Consiglio ad elaborare una lista nera di jihadisti europei e di “sospetti terroristi jihadisti”.
La risoluzione sarà trasmessa ai governi degli Stati membri, dei paesi candidati dell’UE, all’ONU, al Consiglio d’Europa, all’Unione africana, e agli stati membri dell’Unione per il Mediterraneo, della Lega degli Stati arabi e dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
Conclusioni
Il testo approvato, per quanto infarcito di buoni propositi tesi a mitigarne l’approccio di stampo fortemente eurocentrico è incentrato a non affrontare con i mezzi necessari, una revisione della politica estera europea. Mancano provvedimenti che sarebbero necessari ad esempio verso quei paesi e governi come la Turchia o l’Arabia Saudita che per precisi interessi geopolitici non hanno mai fatto realmente mistero di essere assai vicini al cosiddetto califfato e a quello che questo comporta. Una risoluzione di stampo fortemente liberticida, che andrà a limitare la libertà non solo di chi si rende responsabile di atti terroristici ma di chi non condivide la politica estera degli Stati membri, in cui l’utilizzo della forza militare è elemento predominante. Un testo da “stato di guerra” che, unito ai provvedimenti già presi in alcuni Stati, dopo gli attentati, non apre le porte ad una fase risolutiva ma ad un lungo periodo di conflitto. La relatrice, Rachida Dati, (PPE) ha rafforzato tale approccio impedendo di fatto di trovare anche un compromesso migliore, la relatrice ombra per il GUE-NGL Barbara Spinelli ha argomentato l’indicazione di voto contrario per il proprio gruppo in maniera articolata. «Non è stata una decisione semplice-ha dichiarato la Spinelli – Nonostante i negoziati si siano svolti nel rispetto delle reciproche posizioni, e una serie di nostri emendamenti non irrilevanti sia stata accolta nella Commissione Libertà pubbliche e nell’Assemblea plenaria, il risultato finale ha risentito in maniera a mio parere affrettata degli attentati parigini del 13 novembre: il gruppo politico PPE nel suo insieme ha accentuato negli ultimi giorni la natura repressiva del rapporto e ulteriori misure anti-terrorismo sono state adottate, senza che ancora siano valutate la necessaria proporzionalità nonché la necessità legale. La politica della paura, sotto molti aspetti, ha prevalso nella maggioranza dei gruppi, pur creando importanti divisioni nel gruppo socialista, in quello dei Verdi, e perfino nel GUE-NGL». La relatrice “ombra”, col supporto di 11 ONG aveva presentato 95 emendamenti, in parte incorporato nella risoluzione sotto forma di emendamenti di compromesso. In particolare sono entrati nel testo i riferimenti al ruolo delle scuole e più in generale dell’educazione nella prevenzione della radicalizzazione violenta e sugli investimenti necessari in materia sotto forma di progetti sociali anche nell’ambito della lotta alla discriminazione. Altri emendamenti sono stati assunti in plenaria, durante il voto e la stessa Spinelli si è dichiarata stupita favorevolmente dell’approvazione di un passaggio in cui si menziona l’estendersi dell’islamofobia in Europa a “anni di guerra contro il terrorismo” e soffermandosi sul fatto che per gli estremisti i reclutamento si avvantaggia del fatto che “l’Europa non sia più un luogo in cui i musulmani sono benvenuti o possono vivere in condizioni di parità senza essere discriminati”. Ed è stato approvato anche un emendamento in cui, accanto al cordoglio e alla solidarietà per le vittime di Parigi si esprime condanna per l’uso di stereotipi, di parole e di pratiche xenofobe e razziste che provavano a collegare gli attentati alla questione dei rifugiati. Sono passati emendamenti che chiedono strategie nazionali per combattere l’islamofobia, anche con provvedimenti riguardanti questioni sociali (lavoro, alloggio, istruzione) e sono passati anche gli emendamenti che invitano a considerare una priorità dell’UE la lotta contro il traffico d’armi e il potenziamento della cooperazione nell’ambito dei meccanismi di scambio di informazioni e della tracciabilità e distruzione delle armi proibite.
Troppi però sono i punti negativi denunciati dal GUE-NGL. Intanto l’introduzione della Direttiva PNR (schedatura dei viaggiatori) estesa anche ai voli interni all’Unione. Una misura che per il Garante europeo per la protezione dei dati e altre importanti autorità definiscono non necessaria né proporzionata. Altro elemento critico, emerge dal fatto che si condividono le analisi effettuate dall’European Digital Rights (EDRI) secondo cui gli standard di crittografia non dovevano essere arbitrariamente indeboliti, come di fatto lo sono nel rapporto approvato dal Parlamento, perché ciò rischia di avere effetti negativi sulla privacy di persone innocenti.
Pericoloso è anche il fatto che la risoluzione obblighi le compagnie internet ad “una sistematica cooperazione con gli Stati e mettendole praticamente sotto la loro tutela. È un messaggio assai pericoloso che per questa via viene trasmesso a regimi autoritari nel mondo, tanto più che di tale misura si chiede l’applicazione perfino per quanto concerne materiale considerato legale”.
Ad essere respinto è stato anche un emendamento presentato dal gruppo S&D con cui si chiedeva che gli Stati Membri “debbano astenersi dal ricorrere a misure di controllo alle frontiere finalizzate alla lotta contro il terrorismo e all’arresto di individui sospettati di terrorismo, con lo scopo di esercitare un controllo dell’immigrazione”. Si manifestava estrema preoccupazione “per le misure adottate da alcuni governi dell’UE, volte a introdurre ulteriori controlli alle frontiere onde impedire l’ingresso nell’Unione di rifugiati e migranti, con il rischio che tali misure siano basate sull’arbitrarietà e su un ‘profiling’ razziale o etnico del tutto contrario ai principi dell’UE, e che viola inoltre gli obblighi internazionali degli Stati membri in materia di diritti umani”. Il rischio è che le proposte contenute nella relazione possano mettere a repentaglio alcuni diritti fondamentali nell’UE, soprattutto nei confronti dei rifugiati e delle persone di fede musulmana o delle persone percepite come tali, esplicitamente confusi gli uni con le altre.
Barbara Spinelli ha affermato che: «Al pari dell’European Network Against Racism (ENAR), quel che temo è che gli Stati Membri “debbano astenersi dal ricorrere a misure di controllo alle frontiere finalizzate alla lotta contro il terrorismo e all’arresto di individui sospettati di terrorismo, con lo scopo di esercitare un controllo dell’immigrazione”.
È stato poi respinto un emendamento GUE-NGL contro la vendita di armi a paesi della Lega Araba come Arabia Saudita, Egitto e Marocco, e contro la collusione politica con Paesi terzi a guida dittatoriale.
Un altro emendamento più preciso che criticava il ruolo esercitato dagli interventi militari dell’Occidente in Afghanistan, Medio Oriente e paesi dell’Africa del Nord.
Un altro emendamento respinto raccomandava, in una logica di politica interna, una terminologia più dettagliata, per interventi di risanamento nelle periferie urbane d’Europa.
Da ultimo è stato poi rigettato un emendamento ritenuto fondamentale, il rifiuto della “falsa dicotomia tra sicurezza e libertà”. «In ogni democrazia il rifiuto di tale dicotomia dovrebbe essere un concetto ovvio. Non lo è più di questi tempi, dominati più dalla paura e dalla collera che dalla ragione e dalla rule of law». Ha affermato Barbara Spinelli concludendo.