Viminale: una road map senza futuro

Il documento di cui proviamo a dare una lettura critica è stato elaborato nel settembre 2015, due mesi prima della stretta imposta dai fatti di Parigi di cui ancora è difficile percepire il peso e prima ancora del vertice de La Valletta a Malta e degli accordi con il governo turco. Senza questi punti di riferimento, che marcheranno rapidamente e in senso ancora più restrittivo l’approccio all’immigrazione non si può comprendere quanta assurda sia la modalità di approccio del Ministero dell’Interno a tali tematiche. Da decenni il mondo dell’attivismo antirazzista come gli operatori del diritto, dell’informazione, sociologi, antropologi, esperti di vario tipo, gli stessi cittadini migranti che stanno cominciando a giocare un ruolo politico, si ostinano a dire che tali competenze non possono essere gestite perennemente ed unicamente da chi ha un approccio prevalentemente improntato al controllo e alla repressione. Non è sufficiente il funzionario illuminato a dirottare tale approccio e a determinare politiche diverse ma deve essere il sistema politico, nel suo complesso, a dover cambiare paradigma se non vuole ritrovarsi perennemente in una logica emergenziale, conveniente per chi vuole speculare (politicamente come economicamente), ma contraria agli interessi generali. Ed è un peccato che l’informazione mainstream non voglia assumere un ruolo positivo in tal senso.
“Efficienza del sistema italiano nei settori dell’asilo, prima accoglienza e rimpatrio”, sembrano essere le parole chiave per decifrare le prospettive che dal Ministero dell’Interno si vanno delineando in materia di immigrazione. Il documento che esaminiamo, reso pubblico una settimana fa anche se tenuto un po’ in sordina è stato concluso il 28 settembre scorso è una tabella di marcia (road map) elaborata in conformità all’articolo 8.1 dell’Agenda europea sulle migrazioni che risale al maggio scorso. Esaminandola nel dettaglio, proviamo a evidenziarne i tanti aspetti critici.
«La prima parte riguarda la capacity relativa alla prima accoglienza, approccio hotspot e ricollocazione; capacity in termini di rimpatrio, che è legato anche agli hotspot; descrizione del secondo sistema di accoglienza e relativa capacity aa lungo termine per i richiedenti asilo (SPRAR sistema)».
La seconda esamina le questioni più strettamente procedurali, per l’asilo a partire dal lavoro delle Commissioni territoriali (comprendendo la questione dei minori non accompagnati) questioni relative alla relocation, processo di integrazione. Il documento fornisce finalmente numeri certi, alla data indicata. Il sistema di accoglienza italiano ha oggi una capacità complessiva di 96.945 posti. Per la prima accoglienza si è oggi a circa 12 mila posti, compresi quelli che diventeranno hotspot. Per quanto riguarda la rete SPRAR, grazie all’intervento dei Comuni che peraltro debbono oggi diminuire i propri fondi per l’accoglienza causa deficit di bilancio, si è passati in pochi anni dai 3000 posti del 2012 ai 22.000 del 2015. È in corso una gara straordinaria per ulteriori 10 mila posti e giungere così, nei primi mesi del 2016 a 32 mila posti. Entro la fine del 2016 / inizio 2016 se ne dovrebbero aggiungere altri 40 mila, segno evidente di come si sia finalmente compreso che la fase degli arrivi e della seconda accoglienza è ben lontana dall’esaurirsi. La loro ripartizione in tutto il territorio nazionale e l’intervento degli enti locali fa presupporre elementi positivi. Meno possibilità di infiltrazioni speculative (che le 14 Procure attualmente impegnate in indagini sull’accoglienza abbiano avuto effetti dissuasivi?) ma soprattutto meno grosse concentrazioni numeriche, che da una parte favoriscono l’inclusione nel territorio con standard di vita decenti e dall’altro rendono meno fruttuosi i suddetti tentativi di speculazione. Se i centri ospitano meno di 50 persone, risultano meno appetibili perché i guadagni che se ne possono trarre sono minori.
Ma, come del resto fa notare il rapporto su Accoglienza per migranti e profughi, elaborato dal Ministero dell’Interno (lo trovate nella nostra “biblioteca virtuale”) ancora molti profughi sono in condizioni emergenziali nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Si tratta di un mondo ancora in parte poco noto e opaco (le prefetture, adducendo il motivo di non voler creare allarme sociale, non forniscono mappe complete sulla loro ubicazione e sugli enti gestori), ma la loro capacità è valutata in 68.093 posti, il 72% delle persone in accoglienza. Troppi per una condizione che dovrebbe essere temporanea.
L’approccio Hotspot
Il piano, a detta del Viminale, è volto a canalizzare gli arrivi in una serie di porti, soprattutto in Sicilia, dove dovrebbero (il documento dice devono) essere effettuate tutte le procedure previste come lo screening sanitario, la pre-identificazione, la registrazione, il foto- segnalamento e i rilievi dattiloscopici. A Catania è stato aperto un apposito spazio, di fatto la base di Frontex, dove è operativo un Ufficio Task Force Regionale dell’UE, dove le tutte le agenzie preposte dovrebbero supportare le aree hotspot. Quattro gli hotspots finora individuati (Lampedusa, Pozzallo, Porto Empedocle e Trapani) a cui si aggiungeranno Augusta e Taranto per garantire 2500 posti, teoricamente entro la fine del 2015 che ormai però si avvicina.
Dopo lo screening sanitario ogni persona, secondo tali disposizioni, dovrebbe essere intervistata da funzionari degli uffici immigrazione, i quali sono chiamati a compilare il cosiddetto “foglio notizie”, contenente le generalità, la foto, le informazioni di base nonché le indicazioni sulla volontà o meno di chiedere protezione internazionale. Questi incontreranno funzionari dell’EASO (Agenzia Europea Supporto all’Asilo) e qui avverrà la suddivisione fra profughi e irregolari. Le storie che ci arrivano dalle aree che dovrebbero divenire hotspot sono però diverse. Molte testimonianze affermano che, soprattutto i funzionari di Frontex pongono ai profughi una sola domanda relativa alle ragioni dell’arrivo. Se si risponde che si è venuti per lavorare (risposta comprensibile per chi non conosce le ambiguità e le complessità della nostra legislazione) ma che provoca come esito, a meno che non si provenga dai pochi paesi considerati in guerra, l’incasellamento nella condizione di “irregolare da espellere”. Mentre le interviste di pre- identificazione sembrano vertere soprattutto sulla nazionalità dei profughi, quelle condotte poi dai funzionari Frontex ed Europol, hanno carattere investigativo e di intelligence e in tale maniera divengono elemento per non garantire protezione. Con una grande discrezionalità, sulla base della necessità di condurre indagini in tempo, le interviste possono – ed è scritto nero su bianco – «Prima del loro arrivo negli hotspots, ad esempio quando si trovano ancora sui mezzi di salvataggio oppure non appena arrivano nel porto di sbarco».
A detta di questo documento è già stata definito il personale che dovrà essere attivo in ogni area hotspot : 6 operatori dell’Ufficio Immigrazione (Polizia Italiana), 2 di polizia investigativa, 2 polizia scientifica, (fotografie e foglio notizie); un team di 3 rappresentanti Frontex “addetti agli interrogatori”, 6 mediatori culturali, 4 esperti EASO, altri 10 agenti della polizia scientifica per il foto segnalamento e il rilevamento delle impronte, 10 esperti degli “Stati membri” scelti da Frontex ed EASO, per supportare il personale italiano e ulteriori 5 unità mobili con gli stessi compiti.
Le Categorie
Sulla base di queste procedure le persone verranno foto segnalate e indicate come CAT2 (ingresso irregolare) salvo coloro che saranno considerati ricollocabili CAT1 (richiedenti asilo o anche quelli che manifestano la volontà di richiedere la protezione internazionale e pertanto, formalizzeranno l’intenzione compilando il Modello C3, nelle strutture per richiedenti asilo (regional hubs) dove verranno trasferiti dopo le attività di registrazione. Quelli che appartenendo alla CAT1, saranno in condizione di poter essere ricollocati in altri paesi UE, dovranno compilare uno specifico Modello C3 in inglese, con il supporto di funzionari EASO. A dimostrazione che la ricollocazione non costituirà un fatto preminentemente volontario ma a decidere se se ne potrà usufruire saranno, ad personam, gli stati ospitanti. I CAT2 saranno invece trasferiti nei CIE, tramite autobus o aeroplani con l’ausilio di forze di polizia.
La Relocation
Il progetto del Viminale si è già arenato in partenza. L’afflato emotivo e le dichiarazioni dei leader europei durante la prima fase del passaggio di tanti cittadini, soprattutto siriani, sulla rotta balcanica, aveva portato a disegnare un piano di suddivisione dei profughi, insufficiente nei numeri ma che in parte andava a rompere la rigidità del Regolamento Dublino. Prima ancora che si mettessero in moto i sistemi di sicurezza e di chiusura derivanti dall’allarme terrorismo, molti paesi europei avevano posto un argine estremamente ristretto all’ingresso o all’accettazione dei profughi, da buona parte degli Stati membri, dell’Est Europa fino al Regno Unito. Reti e filo spinato per impedire il passaggio delle persone, battaglie diplomatiche per evitare di doverle accettare. Basti pensare che l’Italia doveva poter ricollocare nel resto d’Europa circa 80 profughi al giorno. Per la re location dovrebbe provvedere il personale EASO determinando anche un piano di volo per chi ottiene tale condizione. L’approvazione viene comunicata agli interessati e, allo scopo di evitare allontanamenti dagli hub, dovrebbe essere effettuata una campagna informativa mirata e la raccolta, per ognuno di titoli/certificati di studio, qualifiche professionali e capacità di lavoro. E il linguaggio della road map mantiene un tono coloniale senza pudore: «colloqui supplementari al fine di stimolare un atteggiamento positivo dei relocandi nel confronti del nuovo paese, scambio di informazione con gli Stati membri riceventi attraverso gli ufficiali di collegamento».
Al di là di un giudizio pessimo sulle modalità con cui dovevano avvenire queste ricollocazioni, in cui la volontà e le esigenze della persona accolta non sono quasi per nulla prese in considerazione, ma si attua una vera e propria selezione utilitaristica, c’è un dato quantitativo che risulta grottesco. In quasi 2 mesi di operatività del sistema di ricollocamento, complessivamente l’Italia ha inviato 50 persone in Svezia e 40 in Finlandia mentre in tutto il 2015 rimpatriava circa 3800 persone considerate non degne di ricevere protezione umanitaria, nei paesi di provenienza. Su alcuni di questi rimpatri pendono già ricorsi alla Corte Europea per i Diritti Umani, tanto per le modalità con cui si sono svolti quanto per i rischi che i “deportati” si troveranno a subire.
Per chi sceglie di chiedere protezione in Italia restano gli hub regionali (non ancora pronti) e poi un sistema di accoglienza in cui il 72% dei presenti è ancora in strutture di emergenza (CAS).
Per gli altri, per coloro che rifiutano l’identificazione e la foto-segnalazione il passaggio previsto è quello dei CIE (il Viminale intende ripristinare quelli ormai chiusi di Milano e Gradisca d’Isonzo).
Rimpatri
Al Ministero dell’Interno spiegano come sia importante valorizzare i rimpatri volontari assistiti, quelli in cui chi rinuncia a stare in Italia riceverà incentivi per rifarsi una vita a casa propria. Tanti gli attori in campo e tanti i progetti in apparenza splendidi per persone a cui sembra venire offerta l’opportunità di rifarsi una vita, a condizione che se ne vadano ma il risultato è stato finora misero. Nel 2014 924 persone hanno accettato tali progetti, l’obiettivo promesso è di 9500 persone da rimpatriare in questa maniera soft, dal 2014 al 2020, di questi 3000 nel biennio 2016/17. Si chiamano RVA (Rimpatri Volontari Assistiti).
Ma il vero interesse è verso i rimpatri forzati, sono stati 3731 al 15 settembre 2015, su oltre 15.600 disposti. I rimpatriati coattivamente sono soprattutto tunisini (865) e albanesi (850) ma sono in crescita i provvedimenti verso cittadini nigeriani. Questo nonostante chi fugge illegalmente dalla Tunisia rischia, in base ad una legge del 2004, di subire pene detentive estremamente pesanti. I governi europei, insieme o alla spicciolata, stanno tentando di raggiungere accordi con alcuni paesi per rendere più facili i rimpatri coatti e veloci i tempi di identificazione in cambio di sostegno ai governi dei paesi di provenienza. Accordi in tal senso sono stati siglati con alcuni paesi. Con il Gambia, il 6 giugno scorso e poi con Costa D’Avorio, Ghana, Senegal, Bangladesh e Pakistan. L’Italia sigla questi accordi e fornisce attrezzature e formazione alle forze di polizia locale. Il principio dichiarato è “più collabori e più riceverai”, il rispetto dei diritti umani di chi è fuggito, in questi accordi, resta solo dichiarazione di intenti. E l’Italia ci mette i soldi: quasi 7 milioni di euro quest’anno, altri 5 per il prossimo. Il progetto prevede di realizzare sistemi informatizzati di rilevamento, archiviazione e comparazione delle impronte digitali (AFIS), su cui giungerà anche un contributo europeo. La ragione, è legata a quello che succede normalmente, che i rimpatriati ritentino di tornare (lo fanno già numerose volte), si spera con la rilevazione di rendere semplicemente più veloci gli ulteriori rimpatri ma non certo di scoraggiare gli arrivi. Per facilitare il compito il Dipartimento di Pubblica Sicurezza italiano intende distribuire propri ufficiali di collegamento nei paesi interessati e contemporaneamente dotarsi di agenti dei paesi di provenienza per la collaborazione in Italia.
Nel capitolo “rimpatri forzati” si tende ad enfatizzare la separazione fra richiedenti asilo e “stranieri che non possono beneficiare della protezione internazionale”, perché si temono “richieste strumentali”. Nessuna prospettiva di garantire ingressi regolari che impedirebbero ogni tipo di “strumentalizzazione”.
Come rimpatriare?
Intanto con i CIE, che dovrebbero aumentare nella loro capacità (nonostante 15 anni di fallimento), poi attraverso una cooperazione concreta da parte delle Autorità consolari dei Paesi terzi, per procedere rapidamente a identificazione e rilascio dei lasciapassare per i rimpatri (miraggio inseguito da decenni e su cui si tenterà di insistere attraverso una logica premiale), con l’obiettivo di “non occupare per un lungo periodo i posti CIE e per ridurre allo stesso tempo il rischio di domande strumentali”. Quindi l’incremento dei voli charter per i rimpatri anche se, come ammette lo stesso ministero, spesso i paesi terzi non sono disposti ad accettare tale trattamento per i propri cittadini. Forte sarà in tal senso il contributo di Frontex che sgraverà le spese per il governo italiano. Al 16 settembre sono stati finora effettuati 33 voli charter verso l’Egitto e 26 per la Tunisia, ma si vogliono utilizzare anche funzionari appartenenti ai paesi dei rimpatriandi per coadiuvare le competenti autorità italiane. Procedure già si sono sperimentati con funzionari della Nigeria e del Gambia che forniscono da tempo assistenza nelle procedure antecedenti il rimpatrio.
Lotta ai trafficanti
Sotto questa voce la road map intende valorizzare il lavoro svolto per smantellare le “reti criminali che favoriscono l’immigrazione irregolare” e anche qui la parola magica sembra essere “coordinamento”. In questo caso gli esperimenti sono stati condotti con Egitto e Turchia, avvalendosi della solita Frontex e di Europol. I dati forniti parlano di 906 trafficanti tratti in arresto fra il 2014 e il 2015. Peccato che quasi tutti i fermati erano probabilmente solo persone che avevano più nozioni marine degli altri e non certo i proprietari delle imbarcazioni o chi trae profitto dal traffico.
Diritto d’asilo
La road map da questo punto di vista certifica che nonostante l’esistenza di 40 commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale i tempi medi prima che venga adottata una decisione in merito erano di 200 giorni a cui si aggiungono 50 giorni per il trattamento delle domande da parte delle forze di polizia. Una media che non rende l’assurdità delle tante e dei tanti che hanno atteso oltre 2 anni prima di ottenere un sì o un no. In prospettiva ci si aspetta di ridurre questo “tempo medio” a 180 giorni, poca cosa rispetto ai tempi compresi in hotspots, hubs, centri SPRAR e strutture emergenziali in cui la vita delle persone si ferma. Per il 2015 si prevede di dover “trattare” circa 70 mila domande d’asilo, rispetto alle 36.330 dell’anno precedente, una crescita dovuta all’aumento delle richieste e a quelle accumulate in passato. La ratifica delle direttive europee fa sì che in caso di diniego, entro 5 giorni debba essere garantita una decisione in merito a richiesta di effetto sospensivo (coì da facilitare i rimpatri forzati) e che entro ulteriori sei mesi debba poi essere presa una decisione definitiva. Sempre in base alle suddette Direttive, l’accoglienza ai richiedenti asilo viene garantita fino alla decisione di primo grado. E poi?
Il documento parla in conclusione di miglioramento nel funzionamento del sistema di asilo che sarà garantito grazie all’informatizzazione dei dati (sistema Vestanet) che interesserà Questura, Unità Dublino, Commissioni territoriali ecc.. Dall’inizio di settembre – secondo il documento – è stata sviluppata una nuova procedura informatizzata integrativa che consente di elaborare anche le fasi di reinsediamento (peccato che manchino i reinsediamenti), ma si sta lavorando anche implementando DubliNet ed Eurodac nonché l’utilizzo del Codice Eurodac per le impronte digitali. Da luglio è operativo un nuovo servizio web che permette all’Unità Dublino e alla Polizia scientifica di scambiare in tempo reale tutti i dati relativi alla data di ingresso dei richiedenti asilo, alla loro “latitanza” e alle decisioni finali. Un software specifico per la gestione dell’accoglienza dovrebbe essere operativo entro la fine dell’anno. I dati di ogni persona che entra dovrebbero essere messi in connessione per mezzo di un Codice Identificativo Unico (CUI) permettendo un uso efficace del sistema del “Database Migranti” (BAI).
Minori stranieri non accompagnati
È stato creato un sistema specifico entrato in azione dal 1 gennaio scorso e strutturato in due livelli. Il primo è gestito con i Comuni che hanno il compito di fornire accoglienza a ciascun minore rintracciato nel proprio territorio. Al 31 agosto risultavano essere presenti 8.944 in tali centri. In questa prima fase dovrebbero prevalere le procedure di identificazione iniziale, valutazione dell’età, trasferimento dai luoghi di rintraccio ai centri di accoglienza, agevolazione di possibili ricongiungimenti familiari o identificazione di specifiche vulnerabilità. Il tutto ad oggi sembra essersi tradotto con la realizzazione di 15 centri “altamente specializzati” per un totale di 737 posti al giorno finanziati con fondi europei per 12 milioni di euro.
Il secondo livello prevede il trasferimento dei minori in progetti SPRAR (finora sono disponibili 941posti ma ulteriori altri 1000 dovrebbero essere creati a breve) a fronte di una presenza per il 2015 (15 ottobre) di oltre 15 mila minori aventi tali esigenze. L’obiettivo massimo previsto (non sappiamo con quali tempi) è quello di giungere a 3750 posti in più rispetto a quelli garantiti dai Comuni.
Piano di integrazione
La parte includente di questo documento definisce un Piano di Integrazione Nazionale (in fase di elaborazione) per evitare che portare a percorsi di autonomia e di inserimento socio-lavorativo dei beneficiari dell’accoglienza. Ci si rende conto che alloggio (fuori dai centri) e occupazione, sono due assi essenziali. Ai beneficiari si chiede di rendersi disponibili ad attività di volontariato locale (circolare 27 novembre 2014). È operativo un Tavolo di coordinamento presso il Ministero dell’Interno e a livello territoriale agiscono i Tavoli regionali, presso le prefetture. Il Piano operativo nazionale dovrebbe incidere su 5 punti chiave: analisi dell’attuale scenario internazionale e relativi impatti sui flussi migratori verso l’Italia, monitoraggio dello stato d’attuazione del Piano Operativo 2014, raccolta dati del sistema accoglienza al 31 dicembre 2014, stima per l’anno 2015 e calcolo del fabbisogno in termini di ricettività del sistema. Non sfugga che in questa voce della road map non si parli di risorse economiche.
Dove prendere le risorse?
A detta dei relatori l’intera gamma degli interventi verrà sostenuta dal bilancio dello Stato e dai Fondi per gli affari interni dell’UE, (Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione “AMIF” e Fondo Sicurezza Interna “ISF”. Responsabile per i fondi AMIF sarà il Vice Capo del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione, mentre per ISF il Vice Direttore Generale della Pubblica Sicurezza. In questa maniera le due componenti del Ministero dell’Interno, spesso in competizione aperta fra loro, sono tranquillizzate. Nello specifico ci saranno diversificazioni: ad esempio i progetti SPRAR, finora attuati attraverso fondi nazionali e i contributo dei Comuni (ormai risibili) saranno coperti dalle risorse AMIF. Anche per i progetti di Rimpatri Volontari Assisiti si cercheranno contributi AMIF Per quanto riguarda i trasferimenti nei CIE si accenna ad un co-finanziamento dell’UE, anche attraverso i Fondi europei della DG Echo. Per i rimpatri forzati è ritenuta non sufficiente la disponibilità dei fondi nazionali si auspica quindi la creazione di un “Trust Fund” e un sostegno finanziario sarà chiesto nel programma ISF. Frontex faciliterà l’attività di rimpatrio con l’incremento tanto di coordinamento e cofinanziamento di voli charter congiunti ma anche finanziando i voli organizzati esclusivamente dall’Italia e garantendo la formazione di agenti di polizia. Il governo conta sul sostegno derivante dal Piano d’Azione UE sul rimpatrio forzato. Altri progetti sempre per il rimpatrio di cui intende avvalersi il governo italiano sono EURINT e EURLO (?). E se non bastasse, visto che i rimpatri sono considerati al centro di ogni problema, la road map chiede un forte supporto finanziario UE anche utilizzando specifiche procedure di emergenza in prossimità di una gara per la realizzazione di voli charter intercontinentali. Intanto si riducono le spese pro capite per l’accoglienza, avendo come alibi anche gli sperperi e le speculazioni emerse dalle inchieste ancora in corso. Per i minori saranno garantiti, anche nei centri di alta eccellenza, 45 euro pro capite al giorno, per garantire tutti i servizi già elencati. Per l’accoglienza dei minori l’UE ha messo a disposizione 12 milioni di euro a cui si aggiunge 1 milione per i partner dei progetti(?). In un anno, solo per i minori dovrebbero essere reperiti 65 milioni di euro.
Conclusioni
La lettura, affatto obiettiva, di questo documento, presentato il 28 settembre scorso ma reso pubblico solo un mese dopo senza che però siano ancora resi disponibili 8 allegati che delineano in maniera più precisa gli interventi, fa pensare ad una progettualità sbilanciata verso il solo approccio securitario, povera di prospettive e in cui i “beneficiari” (di accoglienza o di rimpatrio) sono oggetti e mai persone in grado di prendere decisioni. Una road map che non porta da nessuna parte che per dichiarazioni dello stesso Ministro responsabile è ancora qualcosa in itinere, un punto di partenza ma per andare verso dove. Verso il ruolo che l’Italia dovrà ricoprire nel quadro europeo, fare direttamente il lavoro sporco, quello per cui questo periodo nero passerà alla storia come un periodo di vergogna.