Dopo Parigi: rassegnarsi al terrore mediatico o reagire con la politica?

Le vicende di Parigi, al di là dell’impatto emotivo suscitato, imporrebbero di andare oltre le vuote e ipocrite parole di questi giorni, piene di affermazioni logore ma prive di risposte in grado di produrre soluzioni. Proviamo a sintetizzare alcuni elementi avendo come punto di riferimento il sistema comunicativo e informativo nazionale e continentale, quello che poi si afferma come la principale bussola su cui si orienta il pensiero collettivo.

  • Perché a Parigi? Senza fornire alcuna giustificazione ai criminali che hanno portato morte, distruzione e paura nel cuore dell’Europa, una cosa va detta. La guerra al Daesh (questo il termine corretto per l’entità ancora nebulosa che chiamiamo Isis) va letta alla luce delle guerre che vanno combattendo da parecchio tempo la Francia e in generale i paesi della Nato. La Francia insiste, per i propri interessi nazionali, ad armare e operare con interventi militari in Libia, Siria, Iraq, Mali. Bombardamenti a tappeto verso le basi del Daesh che vedono, come “effetti collaterali” anche la morte di centinaia di civili. Una scelta di guerra contro una forza che va definita semplicemente come nazista che poteva portare soltanto a reazioni cruente e vigliacche, non contro obiettivi militari ma civili. Solo interrompendo la vita quotidiana, riportando la logica della paura e dello scontro insanabile fra “europei” e “musulmani” costruzioni artificiali ma facili da far divenire reali, il fondamentalismo daesh e quello Nato possono continuare a prevalere. Non a caso la risposta Francese agli attentati è stato un bombardamento violento a Raqqa, città siriana considerata fondamentale per Daesh, dove certamente avranno trovato morte non meno cruenta tanti innocenti. La spirale innestata da tempo subisce una nuova accelerazione, uno scontro aperto forse senza quartiere per rimuovere quello che per l’occidente è stato fino a pochi mesi fa un alleato costruito quasi in laboratorio.
  • Cosa è il Daesh e chi l’ha creato? Gli osservatori più attenti e meno embedded da anni si sono accorti che qualcosa stava mutando nell’universo fondamentalista. Se la rete conosciuta con il nome di “Al Qaeda (La Base) ha sempre lasciato intendere ampi margini di opacità, con Daesh tutto si complica o, per certi versi, diviene più decifrabile. Al Qaeda era un universo terribilmente forte dal punto di vista mediatico ma invisibile dal punto di visto organizzativo. Gruppi presenti in un territorio vasto, dal Pakistan all’Indonesia, ai Paesi del Golfo, al Nord Africa e ai Paesi del Corno, aventi come matrice comune quello di essere sunniti e in lotta contro l’occupazione “crociata” dei paesi arabi e dei luoghi santi, hanno sempre agito in maniera scollegata. Più la stampa cercava di individuarne leader indiscussi, menti operative, personaggi da additare come i “cattivi” dei film, più il loro ruolo si dimostrava quasi effimero. Personaggi effimeri la cui uccisione cruenta non faceva altro che alimentare leggende nere, creare martiri, produrre un effetto di emulazione. Daesh parte da un altro progetto, la realizzazione di uno Stato vero e proprio, per ora territorialmente incuneato fra Siria, Iraq e Turchia ma con evidenti mire espansionistiche. Il supporto diretto o indiretto alla sua nascita, in chiave anti iraniana, (l’Iran non solo è di fede sciita ma è la vera potenza dell’area) un supporto fornito da Arabia Saudita, Qatar, Turchia ma anche da chi come i Paesi europei considerano questi paesi “sicuri” e “moderati” su cui investire e da finanziare. In questi paesi giungono armi occidentali che poi facilmente finiscono ad essere utilizzate dai miliziani Daesh, da questi paesi transitano anche coloro che si vanno ad unire all’esercito di questo nuovo Stato, ancora non riconosciuto ma che si propaganda come tale. Propagandano una proposta politica semplice e vincente, quello che il sociologo Adel Jabar ha definito “islam padano” una identità a cui è facile aderire, per cui combattere e morire. Una identità per cui diventa comprensibile tanto partire a combattere verso i luoghi della guerra quanto radicalizzarsi in Europa. Frutti dell’emarginazione e dell’esclusione? Si tratta di una semplificazione terribilmente coloniale. Coinvolge anche uomini e donne che occupano nicchie economiche o sociali affatto subalterne ma che percepiscono la propria condizione come perennemente esposta all’essere considerati di altra origine, di altra cultura, ad essere considerati “altri” e a considerare “altri” i tanti e le tante autoctoni che vorrebbero ancora un paese monoculturale, chiuso, refrattario ai cambiamenti, incapace di accettare culti diversi. Ma lo Stato Islamico corrisponde anche ad altri interessi geopolitici, l’idea di ridisegnare i confini statuali in base alla connotazione religiosa. Gli Stati disegnati con il righello del periodo coloniale potrebbero lasciare il posto ad paesi divisi in base alla confessione religiosa, quanto di più pericoloso e fragile ma contemporaneamente governabile dalle grandi potenze occidentali. Da ultimo una osservazione terminologica per noi ma offensiva per chi la subisce. Daesh è l’acronimo di ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) ma anche indicato come “coloro che portano discordia. L’utilizzo del termine “islamico” per definire l’Isis è contestato tanto da chi non vuole confondersi con tale organizzazione (la parola islam è connessa più ad una idea di fede che di organizzazione politica) tanto da chi non vuole accreditare come già esistente la nascita di uno Stato Islamico, il cui nome genera confusione e favorisce le semplificazioni razziste e islamofobe.
  • Serve a qualcosa chiudere le frontiere? A nostro avviso, condividendo le posizioni già espresse in “opinioni in transito”, la risposta è un no secco per numerose ragioni. La prima è che chi fugge, non solo dalla Siria, fugge soprattutto da un conflitto di cui il Daesh è uno dei responsabili fondamentali, più che portare guerra viene a cercare pace. Si arriva sperando di incontrare un Occidente migliore di quello che poi si trova concretamente. La seconda ragione è connessa alla prima, più i Paesi UE saranno in grado di far fronte a queste catastrofi umanitarie di cui sono direttamente o indirettamente responsabili, più si restringeranno i margini e gli ambiti in cui potranno essere reclutati combattenti disposti al martirio. Ad un lavoro reale di intelligence (che sembra totalmente mancato in Francia) va fatto corrispondere un progetto di accoglienza e di risoluzione dei conflitti che non può passare per la sola prospettiva militare, di mutazione radicale della politica estera e dei piani europei per gestire il caos umanitario che si è determinato negli anni. L’equazione da fare è: più accoglienti = più sicuri. La terza ragione è che, anche impiegando qualsiasi mezzo, le frontiere europee non potranno mai essere impermeabili. Non bastano muri, agenzie di contrasto all’ingresso, stragi nel Mediterraneo o sui Balcani per impedire a chi cerca salvezza di provare ad ottenerla, con ogni mezzo necessario. Negandola si conferma la tesi delle aree più radicali del nazismo Isis secondo cui gli occidentali sono nemici, usurpatori, padroni da sterminare senza pietà. L’ultima, non certo per importanza, è che anche se ai nostri governi piacerebbe poter continuare a combattere guerre come se fossero videogames, uomini e donne che vedono i nostri paesi come nemici sono nati e cresciuti all’interno dei nostri contesti, parlano la nostra lingua, hanno magari anche la nostra stessa cittadinanza ma vivono ogni strage che quotidianamente e spesso nel silenzio, avviene nei loro paesi di origine come il ripetersi di una inaccettabile oppressione a cui ribellarsi. Finché esisteranno vittime di serie A, in quanto europee o occidentali, da piangere, da ricordare, da vendicare, per cui riempire le pagine della stampa mondiale e vittime di serie minori, perite in un attacco militare, in un naufragio di profughi, in un attentato che avviene lontano dai nostri occhi eurocentrici, sarà difficile che non crescano mura di rabbia e di odio. Dipingere gli attentatori di Parigi, come delle tante altre stragi perpetrate, come mostri ignoranti e manovrati da propagatori d’odio ci può rassicurare la coscienza, può essere consolatorio, rassicurante ma quando un quotidiano nazionale utilizza in maniera squallida la libertà di stampa per titolare “islam bastardo”, quando illustri intellettuali della destra perbene o democratici convinti spiegano che mai e poi mai si potrà convivere pacificamente con chi è musulmano, la realtà assume un altro volto. Fra i 6 milioni di musulmani presenti in Francia, 1,7 milioni in Italia, quanti si sentiranno offesi, discriminati, attaccati ingiustamente e quanti fra di loro matureranno nei confronti dell’Europa una distanza e una diffidenza che sono l’anticamera del rifiuto. Sono le frontiere interne a doverci spaventare, sono quelle che rischiano di divenire insormontabili e pericolose e solo una cultura del confronto a viso aperto può impedire che a precisi e miseri disegni politici corrispondano impianti ideologici capaci di diventare coscienza diffusa. La chiusura delle frontiere geografiche, come di quelle umane, rende speculari le parole dei Salvini di turno con quelle di chi inneggia alla strage, ognuna sorregge l’altra e non si tratta di buonismo quanto di consapevolezza politica. Sono i musulmani a patire più di altri il potere di Daesh, Boko Haram, Al Nusra e simili organizzazioni, è l’Occidente intero a subire le ferite inferte da chi si erge a difensore dei sacri confini, minacciando guerra e violenza.
  • Esistono soluzioni da proporre? Si esistono. Passano per percorsi complessi che vanno dalla politica ad una igiene del linguaggio e del discorso pubblico. Le scelte che vanno compiute a breve termine sono di due ordini. Da una parte garantire ai profughi (indipendentemente dal loro paese di provenienza) un percorso sicuro che permetta loro di entrare in Europa e di essere accolti degnamente senza limitazioni dettate dagli egoismi nazionali. Diritto d’asilo europeo, abrogazione del Regolamento Dublino, interruzione dei processi che stanno portando l’U.E. ad appoggiare feroci dittature in cambio della esternalizzazione dei confini. Il vertice di Malta che voleva imporre ai paesi africani di trattenere i propri cittadini in cambio di risorse è di fatto fallito, il finanziamento che verrà erogato alla Turchia di Erdogan per le stesse ragioni è di fatto una ulteriore concessione al Daesh per cui l’Europa dovrebbe fare un passo indietro. Corridoi umanitari e percorsi sicuri in grado di salvare i profughi dai trafficanti, andando a prendere le persone nei paesi di transito o di fuga, garantendo loro sicurezza e salute. Ma accanto a questo va invertita la politica estera Nato o quantomeno dell’UE. Rompere le relazioni con i paesi che favoriscono concretamente Daesh: Arabia Saudita, Qatar, Turchia o quantomeno far dipendere le relazioni con le “petromonarchie del Golfo” e con il nuovo sogno dell’Impero Ottomano di Erdogan, ad un effettivo ruolo per smantellare le milizie del Daesh, togliendo loro armi e dollari di cui risultano ben forniti. Il Daesh da progetto politico “vincente” deve emergere come destinato ad una sconfitta non militare ma politica. Se il modello delle combattenti kurde di Kobane si impone rispetto al “califfato” si toglie acqua al bacino immenso in cui attecchisce il terrorismo. Sarebbe una scelta non dettata dal buonismo ma da una visione di politica estera meno soggetta agli interessi statunitensi e più protesa a costruire prospettive di pace e prosperità nel Mediterraneo. Dipende molto anche dall’Europa, se preferisce la logica dei bombardieri e delle occupazioni coloniali a quella della ricostruzione. Ma è anche il linguaggio diffuso che va modificato in profondità e in questo il sistema mediatico ha un ruolo fondamentale. Parole come “islamico”, “clandestino”, “invasione”, “sicurezza”, “guerra”, “pericolo terrorista”, vanno rigettate al mittente con estrema attenzione. Dicendo che l’Islam non contempla la morte degli innocenti, chi lo fa in suo nome mente e bestemmia, che non può essere chiamato “clandestino” come apparso in alcune sentenze, chi non ha neanche toccato il suolo italiano, che parlare di invasione per 150 mila persone in un Paese di 60 milioni di abitanti è ridicolo, che la vera “sicurezza” parte dal considerare persone quelle che arrivano non messe di fronte ad altri militari che impongono il potere derivante dalla divisa e che prima di dire “guerra” dovremmo fare i conti con i tanti morti provocati da guerre di stampo neo coloniale imposte per il controllo delle risorse o per l’egemonia geopolitica. Si i terroristi esistono e sono dimostrazione di una progettualità orribilmente simile al nazismo di passata memoria ma non bisogna mai dimenticare che la scarsa compassione che spesso si prova fuori dall’Europa deriva troppo dai bombardieri capaci di portare morte e distruzione senza essere mai considerati per quelle che sono, forze di occupazione militare. Fatti e parole che governi diversi potrebbero compiere e pronunciare per invertire una rotta che rischia di portare il pianeta intera verso la fine.
  • L’Europa è da venerdì 13 novembre in guerra? No in guerra ci è entrata molto prima, ma ha fatto finta, malgrado i numerosi attentati a Madrid, a Londra, a Parigi, di poterne restare immune. Ha scelto di fatto di non voler cercare soluzioni nei punti nevralgici del Medio Oriente, nell’Africa Sub- Sahariana, di non voler cambiare politica estera, di cercare alleanze con i regimi peggiori per fermare i profughi e concludere affari, piuttosto che cercare di instaurare rapporti sani e badare agli interessi dei reciproci popoli. Oggi – e non è una giustificazione – c’è chi considera l’Occidente un nemico contro cui tutto è lecito e permesso. E la frase che autorevoli e “democratici” commentatori televisivi e della carta stampata ci stanno propinando è trita e ritrita ma sembra nuova. «Dobbiamo accettare l’idea di perdere parte della nostra libertà in cambio della nostra sicurezza». Come si traduce questo messaggio minaccioso? Si è in guerra quindi le leggi, peraltro mai rispettate, che hanno rispettato la vita in Europa vengono meno, soprattutto per chi non è europeo. Quindi diventa normale chiudere le moschee, (focolai d’odio) comminare espulsioni per ragioni di sicurezza, anche in paesi in cui i deportati rischiano la vita, agire in deroga a tutti i diritti, (già avveniva prima), punire chi osa solidarizzare con profughi e rifugiati, agire con durezza contro le occupazioni meticce delle case, dare maggiori poteri alle forze di polizia. Arriverà la paura come logica di vita, più che nel passato, più che nel 2001, dopo l’11 settembre e questo lo si evince non solo dai titoli micidiali dei quotidiani apertamente xenofobi. Emerge anche da chi intende governare con pugno di ferro e guanto di velluto i paesi europei, facendo dimenticare grazie agli incubi delle sparatorie, la diminuzione dei diritti e dei servizi che il neoliberismo impone. Assisteremo ad una sindrome mediatica d’assedio, ottima per i talk show televisivi ma inutile per comprendere quanto accade al di fuori dei nostri confini. E forse quello che ci potrebbe fare bene, che ci potrebbe salvare, è ascoltare le voci dei naufraghi e dei salvati, le voci delle madri che aspettano notizie dei propri figli, le voci di chi non riesce a fuggire dai paesi privi di prospettiva, le voci che supereranno Frontex e le tante barriere infami, quelle che racconteranno cosa significa il bombardamento, il deserto, l’ambiente distrutto, il futuro infranto. Subiremo anche noi, lo stiamo già subendo, un bombardamento violento e capace di farci entrare in corto circuito la capacità di comprendere il mondo, rischiamo di restare chiusi in una rete che per ora, per poco ci rende privilegiati ma che ci impedirà di avere futuro. A noi come alle famiglie della Siria, dell’Iraq, del Corno D’Africa, della Tunisia, dell’Africa Sub Sahariana, del mondo immenso fatto di Sud che tanto ci fa paura.