Le politiche della Fortezza Europa

Seguendo i lavori della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Europeo, (Libe) le audizioni degli incontri, il materiale prodotto da maggio ad oggi, viene da pensare che, malgrado gli scenari mondiali siano in drastica e continua mutazione, malgrado la ridefinizione di equilibri economici, geopolitici, malgrado il mutare stesso del tessuto sociale negli Stati membri, dell’Unione Europea, ci si continui a muovere, nei rapporti con i paesi al di fuori da tale spazio, con gli stessi strumenti di sempre: esternalizzazione delle frontiere, politiche di rimpatrio accompagnate da scarsi investimenti per l’accoglienza europea, realizzazione di strutture dentro e fuori l’Europa per fermare l’arrivo dei profughi e contemporaneamente incremento per le spese militari che determinano quasi sempre le situazioni di conflitto che generano i movimenti di persone. Sembra che l’unico insegnamento che ormai tanti anni di storia dell’Unione sia in grado di mettere in pratica, si esaurisca nell’innalzamento di confini interni ed esterni, misure di militarizzazione delle frontiere, investimenti militari per il controllo e il taglio drastico degli arrivi, selezione quasi naturale delle persone poi da far entrare perché, e non si tratta di una questione unicamente italiana, la presenza di lavoratori stranieri serve, copre non solo le nicchie economiche dei lavori che gli europei “non vogliono più fare” (anche per le condizioni di salario) ma anche quelle che “non possono più fare” causa il progressivo invecchiamento e il basso tasso di natalità del vecchio continente.
Le risorse messe in campo in questi decenni dall’U.E. per contrastare l’ingresso “irregolare” delle persone non sono mai state comparabili con quelle che la stessa Unione avrebbe dovuto e potuto mettere in campo per garantire ingressi legali e sicuri nonché percorsi di inclusione sociale, economica e culturale. Per le prime c’è sempre stata unità di intenti, per le seconde hanno prevalso e prevalgono tuttora gli interessi nazionali, le diverse condizioni economiche fra paese e paese, egoismi che non trovavano e forse neanche ora trovano modalità di risoluzione. Partendo proprio dalle decisioni recenti, anche il fallimento che stanno avendo i progetti di ricollocazione di profughi, riconosciuti come tali, percentuale misera rispetto ai fuggitivi e minimo segnale di voler affrontare i problemi, si stanno rivelando fallimentari. Dall’Italia, da circa un mese e mezzo dovevano poter partire 80 profughi al giorno verso gli altri paesi europei, ne sono partiti complessivamente 90 e nulla fa sembrare che la cifra possa vertiginosamente salire.
Lo stesso numero dei rimpatri forzati, su cui l’Unione Europea intende investire parecchio trasformando l’agenzia Frontex in un agenzia viaggi, difficilmente – si spera – potrà essere ampliato. Ad oggi sono state rimpatriate forzatamente circa 4000 persone nei primi 10 mesi del 2015. Sono numeri concreti che dimostrano a che punto è la Fortezza Europa, ma per comprendere bene le modalità con cui si è giunti a tale risultato e provare a disegnare gli scenari futuri è corretto fare un passo indietro.

Non si tratta di una affermazione di carattere ideologico ma di semplice constatazione. Il processo di costruzione dell’Unione Europea ha nei suoi caratteri distintivi fondamentali quello di essere fortezza. Non mi riferisco alla nobile Europa sognata da Altiero Spinelli né tantomeno nei primi tentativi di rendere le frontiere interne meno inaccessibili e quelle esterne basate su una idea in divenire di politica estera comune. Ma l’Europa che si definisce con Maastricht, ma prima ancora con la definizione dell’ “Area Schengen” definisce uno spazio al cui interno e per i propri cittadini è garantita la libertà di circolazione ma in cui vengono rafforzate le misure di controllo verso le frontiere esterne.
Inevitabile, o forse predeterminata, l’intenzione di rendere gli ingressi nei paesi che lentamente entrano in tale area e che non corrisponde totalmente allo spazio U.E. (BeNeLux, Francia e Germania vi aderiscono nel 1985 ma lo fanno entrare in vigore 10 anni dopo, l’Italia nel 1990 ma diviene esecutivo nel 1997). L’adesione implica non solo che i paesi contraenti cooperino per il controllo alle frontiere ma che vengano determinati meccanismi atti a impedire l’ingresso irregolare in Europa e a determinare forme di rimpatrio o espulsione più o meno coatte. Con l’adesione nascono in Italia i primi CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Accoglienza) in cui si può essere per un breve periodo (all’inizio 30 giorni) privati della libertà personale in funzione di essere rimpatriati nel paese di origine.
La legislazione italiana ha seguito un suo percorso che ha portato prima ad aumentare il tempo massimo di trattenimento e a modificare nome e funzione dei centri (ora sono CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione), poi a ridurlo, per portarlo agli attuali massimi 90 giorni, senza però aver mai determinato neanche una verificabile efficacia. Nel periodo di massima espansione di tali strutture- sempre più somiglianti nei regolamenti e nella loro realizzazione architettonica a carceri di massima sicurezza – nei 13 centri aperti finivano con l’esser presenti al massimo 3000 persone, di queste meno del 50% veniva realmente rimpatriato.
Il tutto perché le autorità consolari non facilitavano l’identificazione di quello che era definito come “ospite”, i costi di rimpatrio erano proibitivi, spesso non si potevano rimandare persone in Paesi che ne mettevano a repentaglio la vita, sovente, i ministeri che dovevano cooperare fra loro per le identificazioni (Giustizia e Interni) non avevano canali comunicativi adeguati.
Di fatto con costi esorbitanti si tenevano e si tengono in piedi tuttora (anche se in maniera più limitata) strutture dispendiose, causa di sofferenze e inutili e, contemporaneamente si mantengono in condizione di irregolarità centinaia di migliaia di persone che magari vivono e lavorano serenamente in questo Paese, prive di contratto. I centri di detenzione sono la dimostrazione paradigmatica che con il proibizionismo non si contrasta l’ingresso ritenuto illegale e men che meno si garantisce la sicurezza dei cittadini. Una politica di facilitazione agli ingressi regolari, con sostegno per chi deve intraprendere viaggi difficoltosi e non vorrebbe finire nelle mani dei trafficanti, produrrebbe risultati migliori, tanto per chi arriva quanto per chi ospita.
Ma la stagione dei CIE sembra volgere al termine, non solo in Italia ma anche nel resto del continente, soprattutto nei paesi delle sue frontiere meridionali e orientali perché nel frattempo le migrazioni cambiano ragion d’essere e prospettiva. Se permane ancora una certa presenza di persone che mirano a cercare in Europa migliori prospettive economiche e di inserimento lavorativo gran parte degli arrivi sono oggi dovuti o a ricongiungimenti familiari per chi da anni vive in uno degli Stati membri dell’U.E. o alla fuga da situazioni di conflitto armato, di tensione, di dittatura, di regimi più o meno oppressivi verso settori delle popolazioni. Si tratta di un dato valido certamente per Italia, Grecia, Spagna e Ungheria, ormai considerati quasi esclusivamente paesi di transito e non di approdo.

Si tratta di un cambiamento di fase che coglie l’U.E. preparata solo in parte. Da anni l’Unione investe in agenzie di controllo delle frontiere come Frontex, in centralizzazione dei dati raccolti in termini di impronte, foto segnalazioni missioni di intervento tanto alla frontiera quanto nei paesi terzi di transito o di fuga delle persone, a scopo dissuasivo, senza aver portato a casa alcun risultato. Nel tratto di mare più militarizzato del pianeta si continua a partire, viaggiare in condizioni disperate, spesso a morire – solo nel 2015 sono affogate oltre 3000 persone nel Mediterraneo – e a nulla valgono droni, strumenti elettronici di controllo, navi militari e contractors presenti nei paesi di partenza. Anzi l’allargamento delle aree esposte ai conflitti, unito ad un peggioramento delle condizioni ambientali, soprattutto in Asia Suborientale e alla crisi economica e sociale, unita ad instabilità politica che attaglia il Magreb, fa sì che ci sia un incremento alla partenza. Un continente solido come struttura politica avrebbe agito in maniera meno miope. Avrebbe cominciato a dover ridefinire quel labile confine che separa il “migrante economico” dal “richiedente asilo” o dal “rifugiato ambientale”, avrebbe dovuto rivedere le norme che regolano la circolazione delle persone che hanno ricevuto protezione all’interno dello spazio UE mandando al macero il Regolamento Dublino che obbliga a fermarsi nel primo paese in cui si sbarca. Invece, nonostante negli anni si siano raffinate le politiche di cooperazione fra i singoli Stati membri, in ossequio ad una Commissione Europea sempre più dominante nelle decisioni che contano, hanno prevalso nei fatti due linee apparentemente fra loro divergenti.
Da una parte i singoli paesi si sono tutelati ognuno partendo dalle proprie specificità. Se in Gran Bretagna si è optato per una linea tanto dura da prevedere, già in passato la detenzione anche dei nuclei familiari dei richiedenti asilo, se la Francia ha alternato politiche di inclusione e di estensione dell’accesso alla cittadinanza, se la Germania ha accompagnato una maggiore attenzione ai profughi (selezionati per nazionalità) ad un mantenimento della condizione di “lavoratori ospiti”, i paesi più esposti hanno risposto, prima in maniera individuale, ora in maniera condivisa, con la costruzione di frontiere più tangibili e con gli investimenti per definire accordi con i paesi esterni.
Il quadro che si prospetta è a dir poco drammatico e foriero di eventi luttuosi. L’Unione Europea, dall’Agenda per l’Immigrazione di maggio ad oggi, ha deciso di perseguire una strategia priva di sbocchi positivi. Da una parte forme di accoglienza, peraltro ancora diseguali, soprattutto per i profughi siriani e non condivise da tutti i 28 Stati membri dall’altra implementazione delle politiche di rimpatrio e di esternalizzazione delle frontiere. Per i primi, in Italia e Grecia soprattutto, la chiusura dei CARA, porta verso nuove strutture: gli hotspot, (punti di crisi) soprattutto da noi nel Meridione, che permetteranno se aperti di tenere 2500 persone da identificare, fotosegnalare, sottoporre a screening sanitario e poi dividere in aventi diritto asilo o protezione e destinati all’espulsione. Malgrado i documenti elaborati affermino che non verrà operata distinzione in base alla nazionalità ma su base individuale, ad oggi chi arriva da gran parte dei paesi considerati “sicuri” viene posta, spesso dagli agenti di Frontex, una sola domanda: «Perché sei venuto qui». A chi risponde: «Per lavorare» ci sono notevoli possibilità che venga immediatamente notificato l’invito a lasciare entro 7 giorni il territorio nazionale. Chi viene invece da alcuni paesi, per ora solo Siria, Iraq ed Eritrea, sarà smistato prima negli hub regionali, aree di smistamento che sostituiranno i Cara e poi o nella seconda accoglienza (Sprar) o riallocati in altri paesi europei con le difficoltà che questo comporta, ivi compresa la possibilità per i paesi che accettano la ricollocazione di operare selezioni per nazionalità, cultura, formazione professionale, età, genere ecc… Le modalità di realizzazione dei rimpatri forzati, attraverso voli charter che Frontex intende intensificare, resteranno comunque una parte della strategia di contenimento. La parte più impegnativa verrà messa in campo, applicando gli accordi bilaterali di riammissione, una real politik europea e il Processo di Karthoum ovvero costruendo, con fondi UE centri di smistamento in loco. Gli accordi con il Niger sono già allo stadio avanzato, si prospettano soluzioni simili in altri Paesi dell’Africa sahariana e subsahariana. Un ruolo chiave, dato l’espandersi degli ingressi dal Medio Oriente, lo rivestirà la Turchia. Un progetto già in fase avanzata prevede che per l’intero 2016 la Turchia riceva 1 miliardo di euro per gestire gli oltre 2.200.000 profughi ora presenti. Possibilità di ingresso in Europa per chi fugge dalla Siria o dall’Iraq, rimpatrio per chi arriva da Bangladesh, Pakistan e persino dall’Afghanistan, ritenuto paese sicuro. Lo stallo in Libia impedisce ad oggi, dato il fallimento dell’operazione EURONAVFOR-MED di capire come si interverrà in quello che fino a pochi mesi fa era stato il principale paese di transito. In caso di sua pacificazione, centri di trattenimento e di smistamento verranno realizzati anche lì con l’ipotesi ormai detta esplicitamente di far divenire questi paesi quelli da cui poter chiedere asilo per entrare in Europa. Paesi che offrono poche garanzie in materia di diritti umani e che tutt’ora debbono badare a gestire proprie crisi interne mai sedate.
In conclusione possiamo dire che l’Europa Fortezza, a volte a maglie larghe a volte più serrate viene riproposta come unica soluzione possibile. Periodicamente c’è chi prospetta l’arrivo di milioni di persone destinate a cambiare gli equilibri demografici nel vecchio continente, persone che non potremmo sostenere, persone che non arriveranno mai in tale quantità e che, sono le ricerche delle istituzioni preposte a dirlo, portano, anche in termini economici, più benefici che costi. Affiorano ogni tanto, fra le persone più illuminate, idee come la revisione del Regolamento Dublino, la possibilità di definire ingressi regolari per migranti nel continente, la proposta di un diritto d’asilo europeo e quella di non rimettere in piedi carrozzoni detentivi all’interno dell’UE né tantomeno accordi capestro con i tanti dittatori che regnano in buona parte dei paesi da cui si fugge. Ma sono poche cose. Una prospettiva politica europea dovrebbe oggi interrogarsi sulla validità attuale della forma “Fortezza” ripensarsi, ed avere anche il coraggio di una visione di lungo periodo. Quella per cui come per capitali e merci, anche per le persone, le frontiere e i confini diventino un retaggio del passato.

Tratto dall’intervento al panel organizzato nel quadro del 19 milion project, dalla Campagna LasciateCIEntrare