Le parole del Papa possono intaccare la Fortezza Europa?

Nell’Enciclica Laudato si’, Papa Francesco parla di migranti e profughi. «É tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa» (Laudato si’, § 25). Si tratta di un punto di straordinaria attualità.

Si è più volte cercato, nel corso degli anni, di introdurre la figura di “profugo ambientale”, ma il diritto internazionale non concede la protezione giuridica a chi fugge da disastri climatici, eventi meteorologici estremi, desertificazione, mancanza di cibo e di acqua.

Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), entro il 2050 nel mondo ci saranno tra i 200 e i 250 milioni di individui costretti a mettersi in salvo dalle conseguenze del degrado ambientale: una persona ogni 45 nel mondo. Questo significa che ogni anno ci saranno sei milioni di uomini e donne costretti a lasciare i luoghi in cui vivono cercando vie di salvezza nei paesi più ricchi.

Di fronte allo sconvolgimento epocale che investe i paesi dall’altra parte del Mediterraneo, l’Europa non sa che erigere difese, pur ammantandosi di retoriche umanitarie. Non si interroga sulla propria parte di responsabilità nei crimini perpetrati a danno dell’ambiente e delle persone, sulle guerre che ha alimentato o scatenato, sui regimi che ha sostenuto o insediato, sulle multinazionali cui ha consentito di depredare terre e acque, e di utilizzare il lavoro schiavo di uomini, donne e bambini.

Le recenti decisioni delle istituzioni dell’Unione – della Commissione europea e del Consiglio – prevedono l’istituzione di luoghi chiamati hotspot. Centri dove i migranti appena sbarcati dovranno essere sottoposti a identificazione e divisi in due categorie: quella dei profughi, aventi diritto a inoltrare la domanda di protezione internazionale, e quella dei “migranti economici”, persone che, venute per migliorare la propria condizione lavorativa, devono essere rimpatriate.

Gli hotspot in via di allestimento in Italia e in Grecia – al di là della loro concreta possibilità di realizzazione – sono stati concepiti come un dispositivo simbolico di creazione di categorie che nega il principio stesso di diritto di asilo. Le richieste non verranno infatti esaminate individualmente, ma si procederà per nazionalità: da un lato i profughi provenienti da paesi in guerra (prevalentemente Siria e – almeno per ora – Iraq, Eritrea, Somalia e Afghanistan), dall’altro i migranti economici, ovvero tutti coloro che scappano nel tentativo di ricostruirsi una vita, non importa che siano donne nigeriane vittime di tratta o nigeriani perseguitati da Boko Haram, che siano famiglie in fuga da desertificazioni, carenza di cibo e di acqua, carestie, o da paesi come Gambia, Sudan, Bangladesh.

Per i primi, i profughi riconosciuti, sarà possibile l’accesso alla domanda d’asilo – seppure in condizione di privazione della libertà in strutture simili ai Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) o negli stessi Cie – e per qualcuno la ricollocazione in altri Stati membri, per quanto lo permetteranno le quote insignificanti stabilite dal Consiglio: 160.000 persone suddivise in due anni, su base volontaria. Per i secondi è previsto il rimpatrio con i voli congiunti dell’agenzia europea Frontex, oppure l’abbandono di fatto, grazie a quello che sta diventando un vero e proprio sistema nei costituendi hotspot siciliani: il respingimento differito. Alle persone appena sbarcate, prive di denaro e di documenti, viene consegnato un provvedimento di espulsione che intima di lasciare l’Italia entro sette giorni, con un volo da Fiumicino per il paese di provenienza. Messe in mezzo a una strada, non più autorizzate a essere ospitate nei centri di primo soccorso e accoglienza, queste persone – sempre più spesso anche minori – entrano in un meccanismo di illegalità voluto dallo Stato, in violazione delle direttive europee e del buon senso.

Soprattutto, la politica dell’Unione prevede l’esternalizzazione delle frontiere. A questo tendono le recenti scelte di Consiglio e Commissione, che troveranno ratifica nel prossimo vertice di Malta, l’11 e 12 novembre. A La Valletta saranno invitati dittatori ed esponenti dei regimi africani, compresa l’Eritrea. Per ottenere lo scopo di far scomparire le masse di migranti che premono ai suoi confini, l’Unione è disposta a versare molto denaro in fondi e in aiuti allo sviluppo, anche al regime di Afewerki.

Le politiche dell’Unione europea nei confronti della Turchia – sancite dall’incontro, il 13 ottobre, fra il presidente della Commissione Jean-Claude Junker e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan – sono paradigmatiche: creare e finanziare campi al di là del mare, dove i profughi siano rimpatriati o trattenuti in condizioni che non ci riguardano e che, soprattutto, non dovremo essere obbligati a guardare. Poco importano le le politiche di Ankara nei confronti dei curdi e di qualsiasi forma di opposizione interna.

«Purtroppo c’è una generale indifferenza di fronte a queste tragedie, che accadono tuttora in diverse parti del mondo», scrive il Papa nell’Enciclica. «La mancanza di reazioni di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile». E aggiunge, allargando il campo delle responsabilità dall’ecatombe ecologica alle politiche di rapina del capitale: «Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici. Ma molti sintomi indicano che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo» (Laudato si’, § 26).

Nell’esortarci ad avere cura della casa comune, il Papa è ben consapevole che molti dei danni che affliggono l’umanità sono dovuti alla convinzione dell’Occidente che il mondo sia un suo possesso, di cui non deve rendere conto. Ma questa costruzione ha un’origine culturale, inizia quando le grandi migrazioni di cacciatori-raccoglitori si fermarono e, con l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento, l’economia di condivisione fu soppiantata dal possesso: di terra, di bestiame, di schiavi e della propria stessa famiglia, strutturata secondo un ordine gerarchico.

L’uomo moderno (noi) iniziò a costruire le città e leggi. Si dotò allora di un’ideologia, che cominciò a dirgli che il mondo era una sua disposizione. E che in questo mondo c’erano delle gerarchie: perché il vivente aveva dei padroni.

In Genesi, il dominio sul vivente viene espresso in termini molto espliciti: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”» (Genesi 1,26-28).

Il Papa però scrive: «Il modo migliore per collocare l’essere umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un dominatore assoluto della terra, è ritornare a proporre la figura di un Padre creatore e unico padrone del mondo, poiché altrimenti l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi» (Laudato si’, § 75).

Questo cambio di paradigma deve fare i conti con una postura di dominio introiettata fin dal comando biblico, ed è dunque tanto più rivoluzionario se il rimettere a un creatore significa, da parte dell’uomo – occidentale, bianco, maschio – dismettere la propria pretesa di essere il dominatore assoluto della terra, e finire di imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi.

La predicazione, per assumere valore di cambiamento, deve fondarsi nelle pratiche. Ma prendiamo due fatti recenti, che presentano una discrasia.

Il primo riguarda i rom. Il 13 marzo, Papa Francesco ha annunciato il Giubileo Straordinario della Misericordia. In seguito a questo annuncio, il tasso di sgomberi forzati di famiglie rom è triplicato. Sette sgomberi nei due mesi e mezzo precedenti l’annuncio del Giubileo, sessantaquattro sgomberi nei sette mesi successivi. E questo malgrado il fatto che, lo scorso 26 ottobre, il Papa abbia ricevuto in udienza in Vaticano cinquemila rom provenienti da almeno venti nazioni del mondo, e abbia invocato per loro dignità, integrazione e rispetto dei diritti fondamentali.

Il secondo riguarda i migranti. Il Papa ha raccomandato alle diocesi e alle parrocchie «un gesto concreto in preparazione dell’Anno santo della misericordia. Ogni parrocchia, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia, incominciando dalla mia Diocesi di Roma». Sono parole pronunciate il 6 settembre in piazza San Pietro.

Ma è stata appena pubblicata l’inchiesta di Fabrizio Gatti, giornalista che per un mese si è finto profugo curdo-iracheno con moglie e due bambini piccoli e ha bussato a chiese e parrocchie chiedendo ospitalità per una notte, per poi continuare il viaggio verso il nord Europa. Bilal – questo il nome con cui si è presentato – ha girato l’Italia, è arrivato al confine svizzero, francese e austriaco, e infine in Germania. Ha chiesto aiuto per 23 volte, ed è stato aiutato solo da un parroco in Val d’Aosta.

Sono rimaste chiuse persino le porte del Centro Astalli – il servizio dei Gesuiti per i rifugiati. Un rifiuto sconcertante, se pensiamo che sul suo sito è scritto che l’obiettivo principale del centro è «contribuire a promuovere una cultura dell’accoglienza e della solidarietà», e che la sua «missione è accompagnare, servire e difendere i diritti dei rifugiati e degli sfollati». Un paradosso importante da capire, la cacciata della figura incarnata di cui ci si occupa da anni con studi, analisi, convegni, perché un conto è la figura astratta, un conto la persona in carne e ossa, che chiede aiuto, priva di documenti, di autorizzazioni di polizia.

Ed è di fronte a questa figura incarnata che il Papa parla di misericordia, questa parola così bella, che nel suo etimo raccorda la miseria e il cuore: il sentire intimamente la condizione di chi versa in miseria. Non è pietismo, ed è per questo che la possiamo accettare – anche i non credenti – e far nostra. Perché la misericordia può e deve diventare categoria della politica. Azione politica.

 

Relazione al convegno Fede, scienza, ragione: un’alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale, 4 novembre 2015, Milano, Auditorium Società Umanitaria