di Corrado Giustiniani*
Vorrei cercare, in questo mio intervento, di fornirvi le parole più appropriate per esprimere fenomeni e situazioni che riguardano il mondo delle migrazioni. Facendo però tutti insieme attenzione a non fossilizzarci in una sorta di dogmatismo linguistico. Nella consapevolezza, da un lato, che il giornalismo ha bisogno di vocaboli semplici, e per così dire flessibili. Dall’altro, e conto di dimostrarvelo, che il valore e l’accettabilità di uno stesso termine possono variare in un periodo temporale anche di durata relativamente breve.
La cronaca dell’estate scorsa ci fornisce lo spunto di partenza. Poco dopo Ferragosto la rete televisiva Al Jazeera ha fatto sapere di aver abbandonato l’uso della parola “migrante”, con riferimento a quanti rischiano la vita attraversando il Mediterraneo per venire in Europa. Il direttore delle News, Salah Negm, ha pubblicato sul sito di Al Jazeera il perché di questa scelta. «La parola migrante – vi si legge – è diventata un ombrello molto poco accurato per definire la complessità di questa storia, un termine – si spiega – “peggiorativo” che “allontana e priva della sua umanità” la persona a cui è affibbiato, trasformando in numeri un individuo come te e come me, pieno di pensieri, di storie e di speranze». Ancora: «Nel Mediterraneo non esiste una crisi di migranti, esiste invece un gran numero di profughi in fuga da inimmaginabili miserie e pericoli e un numero inferiore di persone che cercano di sfuggire a quel tipo di povertà che spinge taluni alla disperazione».
Conclusione, la rete Al Jazeera utilizzerà preferibilmente il termine refugee, nell’accezione di profugo. Questa condizione, la condizione di profugo-rifugiato, è definita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, un trattato delle Nazioni Unite al quale hanno aderito 147 paesi, tra i quali l’Italia, che tutela chi fugge dai propri confini «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche». Profugo in questo caso è il termine esatto, nella cui etimologia c’è proprio il concetto di fuga. Rifugiato, in italiano, ha invece un significato leggermente diverso: individua chi prima è stato profugo, poi, una volta giunto in un paese aderente alla Convenzione di Ginevra ha presentato domanda di asilo politico, diventando come si dice con orribile terminologia tecnica un richiedente asilo e, alla fine di un determinato procedimento, la sua domanda è stata accolta, facendogli così ottenere lo status di rifugiato. Dunque, ad essere precisi, non potremmo dire o scrivere “è arrivata una barca di rifugiati”, perché è un controsenso: se sono già rifugiati, non hanno bisogno di fuggire. Meglio usare in questi casi i termini “profugo” e “profughi”.
Ma come facciamo a essere certi che su quella barca in navigazione siano tutti “profughi”? C’è per caso un inviato dell’Onu a bordo che li ha intervistati constatando che vengono tutti, per esempio, dalla Siria, oppure dall’Eritrea, altro paese dal quale si fugge? La diaspora siriana è certo, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, la più grave crisi umanitaria degli ultimi 25 anni. Ci sono stati, intanto, dai 200 ai 300 mila morti, oltre 7 milioni di sfollati interni, poi 1 milione 800 mila profughi siriani in Turchia, ben 1 milione e 200 mila accolti nel Libano, mentre circa 300 mila, da gennaio 2015 alla fine dello scorso settembre, hanno fatto domanda di asilo in Europa. Dicendo “è giunto un barcone di profughi” (ripeto, non di rifugiati) faremo certamente un’affermazione molto aderente alla realtà. Ma è facile, anzi scontato, che a bordo vi siano anche migranti economici – ecco un’altra definizione, accolta a livello internazionale – persone cioè che lasciano il proprio paese non perché costretti alla fuga, ma perché in cerca di un futuro economicamente migliore.
Ora, però, io credo che Il termine generale migranti, che comprende sia profughi che migranti economici, non sia affatto “peggiorativo” e disumano, come vorrebbe Al Jazeera. E’ una parola, almeno nel suo uso italiano, per nulla consunta, che ha una notevole forza fotografica perché coglie l’individuo nel momento in cui lascia il suo paese e si mette in viaggio, per diventare poi immigrato, nel luogo che eleggerà a sua dimora, e magari “cittadino”, all’apice della sua integrazione. A ognuno di noi la parola migranti accende in testa una lampadina diversa. A me viene in mente il titolo di una raccolta di poesie di un prete operaio trentino, Claudio Nereo Pellegrini, finito in Belgio ad assistere i minatori italiani: “Ovunque vivere altrove”. Ovunque vada, chi emigra è sempre con la testa da un’altra parte. Anche se la rivoluzione avvenuta nel sistema dei trasporti e l’uso del telefonino rendono oggi meno struggenti le distanze e meno definitivi gli addii.
Per concludere, possiamo benissimo parlare di “barcone di migranti”, il termine che tiene insieme profughi e migranti economici.
Una nota di colore, adesso, a margine della decisione di Al Jazeera di non parlare più di “migrants” ma di “refugees”. Il Qatar, paese del Golfo che ospita la celebre rete televisiva, non ha fino ad oggi accolto nemmeno un richiedente asilo dalla Siria. E neppure l’Arabia Saudita ne ha accolti, come scrivono Abdel Bari Atwan e Rai Al-Youm, nell’articolo L’ipocrisia degli sceicchi, pubblicato sul numero 119 di “Internazionale” dello scorso settembre. Deve essere quanto meno imbarazzante, per dei giornalisti, discutere sulle parole più appropriate per rendere efficacemente una tragedia umana, e vivere in un paese che davanti a quella tragedia fa spallucce. Insomma: noi, qui a Doha, pensiamo a trovare i termini giusti, ma ad accogliere i profughi dovrete pensare voi.
La discussione sull’iniziativa della tv del Qatar, non è finita qui. Perché un giornalista, Stefano Liberti, e un analista politico, Emilio Ernesto Manfredi, in un’opinione dal titolo Distinguere tra migranti e rifugiati è pericoloso, uscita lo scorso 27 agosto su internazionale.it. hanno, da una parte, contestato ad Al Jazeera l’uso del termine rifugiati applicato a tutti quelli che arrivano, sottolineando, appunto, come le rotte che raggiungono l’Italia, vengano battute anche da persone che non erano in pericolo nel loro paese, ma che volevano semplicemente alzare il loro tenore di vita e sul cui viaggio le relative famiglie hanno investito tutti i loro averi. Ghettizzarle, rispetto ai profughi, è ingiusto e pericoloso.
Dall’altra, però, Liberti e Manfredi concordano invece con Al Jazeera sul fatto che il termine migrants, mettendo insieme il siriano in fuga dalle bombe col senegalese in cerca di lavoro, sia deumanizzante e peggiorativo (!). E allora con che cosa propongono di sostituirla? Con “viaggiatori”, dal momento che “viaggiano come facciamo noi quando decidiamo di visitare un paese straniero e di trasferircisi, solo che non possono venire da noi perché le nostre leggi non glielo permettono”. In alternativa a viaggiatori si potrebbe pur sempre usare la parola “avventurieri”, visto che “nessuno può negare che la loro traversata sia un’avventura”. Viaggiatori, avventurieri? Vedete a quali estremismi linguistici può portare la ricerca esasperata della “parola più appropriata”.
Non è stata una divagazione, questa iniziale. Abbiamo infatti preso in esame l’uso delle parole “rifugiato”, “profugo”, “richiedente asilo”, “migrante”, “migrante economico”, “immigrato”. Analizziamone, adesso, un’altra decina. Nell’ordine, “extracomunitario”, “straniero”, “clandestino”, “irregolare”, “zingaro”, “nomade”, “rom”, “badante”, “sanatoria” e “di colore”, e poi tracceremo qualche conclusione.
Extracomunitario. Il costituzionalista Michele Ainis lo definì sulla Stampa, nel dicembre del 2007, cito testualmente, “un termine razzista, dato che non qualifica lo straniero in base alla sua comunità d’origine, bensì solo alla nostra, alla Comunità europea dalla quale lui è irrimediabilmente escluso”. Ma se le cose stanno come sostiene l’illustre giurista, professore a Roma 3, allora pure straniero è una parola razzista, perché uno è tale dal punto di vista della nostra comunità d’origine. Anche l’etimologia avvicina le due parole: straniero deriva infatti dal latino “extraneus”, e l’“extra”, nel senso di esterno, al di fuori, è presente in altre parole oltre a extracomunitario (ad esempio “extraterritoriale”). Se straniero non può essere una parola offensiva, viene da concludere che non lo sia nemmeno extracomunitario.
Tra l’altro vi sono oggi due accezioni di “straniero”. Se si fa riferimento all’Unione europea, non è tale per noi un francese, un olandese o un tedesco, ma lo sono i canadesi, i russi, gli americani. Se si fa invece riferimento all’Italia soltanto, sono stranieri i cittadini di tutte le altre nazioni. Tanto per fare un esempio, nemmeno dieci giorni fa, il 26 ottobre scorso, a “Radio 24” Giovanni Minoli chiedeva al ministro della Cultura Dario Franceschini come mai avesse scelto ben 19 direttori di musei stranieri. “Non sono stranieri, sono della Comunità europea” gli ha risposto il ministro. Va bene, ma che aggettivo avrebbero dovuto usare giornali, agenzie e radiotelevisioni, all’indomani delle nomine? “Non italiani” è forse l’unica soluzione.
Quanto a extracomunitario è stato usato in questi anni come un termine che distingue, ai fini degli ingressi per lavoro, delle norme e dei tempi d’attesa per la cittadinanza e altro ancora, immigrati che hanno un trattamento diverso rispetto a quelli che provengono invece dall’Unione europea. Cosa avrebbe dovuto dire in tutti questi anni l’ufficiale d’anagrafe: “Senza offesa signore, lei è per caso extracomunitario?” Se il termine aveva un che di offensivo, suscitando in taluni il ricordo di Et e degli extraterrestri, poteva essere sempre addolcito anteponendovi la parola “persona”: “persona extracomunitaria”. Un accorgimento da adottare anche in altri casi, se il contesto lo consente (“persona immigrata” ad esempio, anziché immigrato da solo, o “cittadino” immigrato).
Ma attenzione, ho appena usato l’imperfetto perché ormai il termine “extracomunitario” va considerato come un retaggio del passato. Dal 2011 è andato ufficialmente in pensione, anche se l’uso coriacemente resiste. E’ stato infatti sostituito dalla locuzione “non comunitario”, forse non meno escludente, parafrasando Ainis, ma certo meno roboante e meno cacofonica e di impiego più flessibile. A deciderlo è stato il “Glossario migrazione e asilo”, elaborato dalla rete dell’Unione europea Emn (European Migration Network) divulgato nelle 27 lingue dell’Unione. Tale glossario, aggiornato alla fine dello scorso anno, consta oggi di 400 definizioni, su molte delle quali ciascun paese usa ancora un suo termine distinto. Ma su “non comunitari” sono tutti d’accordo. La locuzione è passata da tempo nel linguaggio amministrativo e in quello della ricerca sociale. Il problema, dunque, non si pone più: i cittadini di paesi diversi dalla Ue no vanno chiamati extracomunitari ma non comunitari.
E adesso alcune considerazioni su quello che viene considerato il termine simbolo dell’approssimazione e anche della faziosità giornalistica e politica: clandestino. Bisogna dire la verità, questa parola, che ha la sua radice nell’avverbio latino “clam”, che significa di nascosto, è di rara efficacia semantica, perché sottende due concetti: che la persona in questione sia straniera, e che sia priva di un permesso di soggiorno. E’ dunque un termine sintetico, che fa risparmiare spazio nei titoli, e che scorre fluido nei testi. L’alternativa a “Due clandestini nel bagagliaio” è una perifrasi molto più lunga e di minore impatto: “Due immigrati irregolari nel bagagliaio”.
A mio avviso, e ci tengo a sottolinearlo perché su questo punto le opinioni potrebbero essere diverse, questa parola, più che offensiva, è usata in modo sbagliato. Avrebbe dovuto indicare soltanto chi riesce a entrare in un paese eludendo i controlli (da cui il reato di “immigrazione clandestina” che ha subito la bocciatura del Parlamento, della quale però il governo deve ancora prendere atto dal punto di vista normativo). E invece è stata generalizzata a qualsiasi tipo di infrazione, persino un permesso di soggiorno scaduto da pochi giorni renderebbe clandestini, e tale estensione ha generato una sorta di marchio d’infamia. Ed è proprio così che la definizione è diventata offensiva.
Il più grande atto d’accusa contro il termine clandestino si deve probabilmente a un artista. Per l’esattezza al cantante e chitarrista francese di origine spagnola, Manu Chao. Corre l’anno 1998 quando esce un suo album di grande successo, intitolato per l’appunto Clandestino. Famosissimo il primo verso del primo brano, che mi sono andato a riascoltare su Youtube: lo avevano fatto in 7 milioni e 600 mila prima di me:
Solo voy con mi pena
Sola va mi condena
Correr es mi destino
Para burlar la ley
Perdido en el corazón
De la grande Babylon
Me dicen el clandestino
Solo vado con il mio dolore
Por no llevar papel Sola va la mia condanna
Il mio destino è correre
per eludere la legge
Perso nel cuore
Della grande Babilonia
Mi chiamano clandestino
Perchè non ho documenti.
Se poi negli ultimi anni negli ultimi anni, i mass media italiani, o per meglio dire le tv pubbliche, le grandi agenzie di stampa, i giornali più equilibrati, hanno ridotto l’abitudine a fare uso di questo termine, il merito va dato ad alcune campagne di informazione dei giornalisti, prima fra tutte quella promossa dalla cosiddetta Carta di Roma, il codice deontologico sull’immigrazione e sui rifugiati, varato nel 2008 dalla Fnsi e dall’Ordine dei giornalisti, sotto l’egida dell’alto Commissariato dei rifugiati. Ad essere sinceri, il glossario che faceva parte del testo originale della Carta, non è così rigido contro la parola clandestino. La definisce semplicemente come termine comunemente usato. Ecco la frase che ci interessa:
«Un migrante irregolare, comunemente definito come ‘clandestino’, è colui che a) ha fatto ingresso eludendo i controlli di frontiera; b) è entrato regolarmente nel paese di destinazione, ad esempio con un visto turistico, e vi è rimasto dopo la scadenza del visto d’ingresso (diventando un cosiddetto ‘overstayer’); o c) non ha lasciato il territorio del paese di destinazione a seguito di un provvedimento di allontanamento».
Parafrasando questo testo, potremmo concludere che non è poi così grave se i giornalisti usano “il linguaggio comune”. Sono state, ripeto, le campagne successive a riuscire a limitare l’uso del termine clandestino. Ma qual è l’alternativa ufficiale per definire ad un tempo chi entra eludendo i controlli, chi ha il permesso scaduto e chi, cacciato, non se ne va? Un vocabolo che lascia vari dubbi: irregolare. Irregolare può essere anche un italiano, se lavora in nero. O un immigrato regolare, quando fa lavori sommersi. Gli americani parlano di illegal immigration. Come termine generico, forse illegale, sarebbe preferibile, anche se, sfogliando il citato glossario Emn, ci accorgiamo che vari altri paesi d’Europa usano la dicitura “irregolare”.
In ogni caso, la forma di irregolarità largamente più diffusa nel nostro paese, non è quella dell’ingresso clandestino, ma l’arrivo con permesso di soggiorno turistico, per poi rimanere oltre i tre mesi consentiti. Stesso discorso quando si riesce a ottenere un permesso per lavoro, che dopo due anni scade, e non viene rinnovato. Gli immigrati in tale condizione vengono chiamati in tutte le lingue, italiano compreso, overstayer, ovvero soggiornante oltre il consentito. Anche il già citato glossario dell’Unione europea lo indica per tutti e 27 i paesi. Se proprio non resistete, usatelo anche voi.
Come avevo accennato all’inizio, vi sono parole che acquistano negatività col passare del tempo, e altre che invece la perdono. Fra queste ultime c’è badante, entrata nel linguaggio comune nel 2002, con la grande sanatoria della legge Bossi Fini dalle 700.000 domande (opps, ho detto sanatoria invece che regolarizzazione, che sarebbe il termine più corretto, perché la sanatoria fa pensare a un intervento generalizzato e gratuito, mentre la regolarizzazione è onerosa: ma sanatoria è più breve, più conciso, più giornalistico). Era giustamente considerato, “badante”, un termine eticamente improponibile, dato che faceva pensare agli anziani come delle bestie da badare, tanto che le Acli ne proposero l’abolizione. Ma oggi nessuno fa più caso all’etimologia, la parola è entrata nell’uso corrente e sarebbe folle richiederne nuovamente la soppressione.
Nell’altalena temporale dal consentito al vietato, singolare è la traiettoria della parola zingaro, a ben vedere opposta a quella subita da badante. Quando io ero piccolo, gli zingari si chiamavano zingari. Al Festival di Sanremo del 1969 Iva Zanicchi si presentò assieme a Bobby Solo con una canzone che faceva Prendi questa mano zingara: oggi un’offerta di contatto di tal genere sarebbe improponibile. Due anni dopo, sempre a Sanremo – cito Sanremo perché era ed è un’occasione sociologicamente ghiotta per fare il punto sul linguaggio popolare – Nicola di Bari, accoppiato con Nada cantava Il cuore è uno zingaro e va. Gli zingari presi quindi come simbolo di libertà, di “carpe diem affettivo” se così posso dire.
E ancora. Dal 1996 al 2002, dunque per ben sette anni, è andato in onda su Rai uno un programma che aveva per nome “La Zingara”, un gioco di tarocchi animato da Cloris Brosca: qualcuno di voi lo ricorderà. Chiudete gli occhi e ditemi se un titolo del genere, oggi, sarebbe proponibile in tv. Un termine ancora usato istituzionalmente e piuttosto frequente anche nel linguaggio dei media, è quello di nomadi (campo nomadi, Opera nomadi). Ma è altamente impreciso: gli zingari d’Italia, infatti, sono in gran parte stanziali. Tuttavia chiamarli nomadi è rassicurante, perché si spera che prima o poi tolgano le tende, se ne vadano da un’altra parte. Resta la parola “politically correct”: rom, che si rifà alle origini storico-geografiche di queste popolazioni che provengono dall’India, ma può essere confusa con romeni (se non con romani, la dizione “campo rom”, a Roma, non la vedrei molto) e non è applicabile, ad esempio, agli zingari Sinti.
In ogni caso è possibile che anche questo termine, che ripeto è quello ufficiale, quello da usare, si carichi col tempo di connotati negativi, che non hanno a che fare col significato del termine, ma piuttosto col giudizio che viene dato di quelle popolazioni. Già oggi dire «Sei proprio un rom» è un chiaro insulto. Un’ultima notazione: nel penultimo week end di ottobre di questo 2015, circa 7 mila zingari, provenienti da vari paesi del mondo, sono andati in pellegrinaggio dal papa. Problema: come chiamarli? TV 2000, l’emittente vaticana, ha annunciato: «Papa Francesco incontra il popolo gitano». La Radio Vaticana: «Pellegrinaggio Gitano», La Discussione: «Il popolo dei Gitani incontra papa Francesco». Il Corriere della Sera del 25 ottobre: «Udienza dal Pontefice per il popolo dei Gitani», e spiega, nel testo, che provengono da 30 paesi, elencandone le denominazioni: Rom, Sinti, Kalè, Manourchrs, Travellers, Romanichals, Gens de Voyage, e Sea Gipsy. Pochi insomma, e fra questi Missioitalia.it, una delle tante voci della Pastorale, che fa capo alla Conferenza episcopale italiana hanno avuto il coraggio di dire «Il papa incontra gli zingari» . Ora però anche il termine “Gitani”, usato come categoria generale, come parola che ancora non si è caricata di negativo, non è affatto risolutivo. Identifica infatti una precisa popolazione di etnia rom stabilitasi nel Sudovest della Spagna attorno al XV secolo e diventata stanziale, dando anche un contributo culturale alle tradizioni spagnole: il flamenco, ad esempio, è di origine gitana.
Oltre a zingano, a me sembra che anche la locuzione vù cumprà, si sia caricata, col passare del tempo, di un fardello negativo che prima non aveva. Non, almeno in questa misura. Grazie alla giocosità del dialetto napoletano, essa conferiva simpatia verso le persone così indicate, che una quarantina di anni fa, provenienti dall’Africa del Nord e persino dal Senegal, avevano iniziato a battere le spiagge italiane con le loro mercanzie variopinte, per poi – così almeno a noi pareva – dileguarsi l’inverno e tornare l’anno dopo. Oggi vù cumprà è diventata una brutta espressione, forse perché quei venditori ambulanti immigrati sono diventati numerosissimi, d’estate e d’inverno, sulle spiagge, sui marciapiedi e ai semafori, e provocano una reazione di fastidio. Resta il fatto che, come clandestino, anche vù cumprà è termine carico di significati. Sottintende infatti a) che sono stranieri b) che sono ambulanti: facendone a meno si passa a una locuzione che non sa più di presa in giro, ma che è certo più prolissa. Perché venditore ambulante non basta, e son già due parole: bisogna aggiungere immigrato.
Chiudo analizzando un termine oggettivamente ipocrita, come e più di nomadi, ma contro il quale non si scaglia nessuno: di colore, al posto di neri. Figura come “politically correct”, ma vi prego, non lo usate mai. Contiene infatti la premessa inconfessata che il nero non sia una bella tinta, e dunque non vada nemmeno nominato.
Contro il di colore condusse anni fa nelle scuole e sui giornali un’accanita battaglia la mia amica Ribka Sibathu, poetessa e mediatrice culturale eritrea, rivendicando appunto la bellezza del nero e invitando tutti a dare del nero al nero. Nero, e non negro, accezione, quest’ultima decisamente offensiva, che quindi non va assolutamente usata. Ma anche su negro, vorrei dire che non è stato sempre così. Fausto Leali a Canzonissima del 1968, dunque meno di cinquant’anni fa, presentò un motivo dal titolo Angeli negri che diceva: “Pittore ti voglio parlare mentre dipingi un altare, e io sono un povero negro”. Questo testo, negli anni della rivoluzione giovanile, non fece affatto scalpore. Del resto una delle più qualificate riviste sull’immigrazione, edita dai missionari comboniani, conserva il nome Nigrizia, che le venne dato nel primo numero del lontano1883.
Nel mio blog I nuovi italiani avviato sul Messaggero e poi trasferito su L’espresso.it, ho cercato con diversi post di attirare l’attenzione contro l’uso del “di colore”, ma senza risultati. Niente neppure dopo il dibattito a cui partecipai con Laura Boldrini, allora portavoce Onu dei rifugiati, al Festival internazionale del giornalismo di Perugia del 2012. Lei è un po’ la mamma della Carta di Roma. Documento che io considero aperto, e dunque non dispero.
Ma la scelta del linguaggio più appropriato non esaurisce certo l’impegno del giornalista quando si occupa di immigrazione. Perché oltre a usare parole, i giornali, le radio, le televisioni, i notiziari online producono notizie, raccontano fatti. Più o meno fedelmente, più o meno amplificati, più o meno deformati. Ci vuole impegno, perché alle volte l’amplificazione, il “due pesi e due misure”, giunge quasi in automatico, senza pensarci su. E’ quasi naturale che se degli automobilisti immigrati, peggio se romeni e peggio ancora se rom, investono e uccidono, la notizia avrà grande spazio e, a seconda dei casi, anche un affaccio in prima pagina, mentre se l’automobilista pirata è un italiano l’articolo si riduce a due colonne, e del protagonista viene indicata magari soltanto la sigla, e non il nome per intero. Non parliamo poi dei delitti…
Va detto infine che il web e i social avanzano e fanno sempre più opinione, anche quando spacciano per vere autentiche bufale. Su l’espresso.it del 16 ottobre scorso, Maurizio Di Fazio ha raccontato come un giovane nemmeno ventenne della provincia di Caltanissetta, e il nome va dato, Gianluca Lipani, facesse soldi a palate proponendo sul suo blog, intitolato “Senza peli sulla lingua”, ospitato da “senzacensura.eu”, notizie fasulle, autentiche bufale su delitti commessi dagli immigrati. Il titolo più clamoroso del blog, ora chiuso dai carabinieri, è stato questo: “Immigrato violenta bambina di 7 anni. Il padre gli taglia le palle e gliele fa ingoiare”. Questa notizia, soltanto nella prima settimana, ha avuto 500 mila visite, quanto in un giorno vendono insieme Corriere della Sera e Repubblica in formato cartaceo, facendo incassare a Gianluca, sempre in soli sette giorni, ben 1000 euro, al prezzo di 2 centesimi a visita, riconosciuto da Google per i banner pubblicitari.
Dalle parole ai fatti, alle notizie. Ma questo è il tema di un’altra conversazione. Grazie dell’attenzione!
*Corrado Giustiniani è giornalista, blogger, autore di saggi e presidente del Trevignano FilmFest. Da molti anni si occupa di immigrazione. Il testo che pubblichiamo è una relazione esposta lo scorso 4 novembre al corso di aggiornamento “Comunicare l”immigrazione” tenuto allo Cser (Centro Studi Emigrazione) a Roma.