Hot-Spot. Centri di prima accoglienza o centri di detenzione?

Il primo settembre la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la detenzione “illegale” di tre migranti tunisini avvenuta nel settembre del 2011 nel Centro di primo soccorso ed accoglienza (CPSA) di Lampedusa e poi su due navi traghetto a Palermo. Per la Corte di Strasburgo la loro detenzione da parte delle autorità italiane è stata «irregolare», «ha leso la loro dignità» e ha violato diversi articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ( 3, 5 e 13). La detenzione amministrativa realizzata all’interno del CPSA era «priva di base legale», i motivi della reclusione erano rimasti «sconosciuti» ai tre ricorrenti che «non hanno nemmeno potuto contestarli» rivolgendosi a un giudice italiano. La Corte ha infine stabilito che l’Italia ha violato il divieto alle espulsioni collettive di stranieri perché ha rimpatriato in Tunisia i tre migranti senza aver prima valutato individualmente la situazione specifica di ciascuno di loro, violando così l’articolo 4 del protocollo 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che dice: «Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate».
Chi oggi sostiene la introduzione dei cd. Hot Spot, in sostanza centri di prima accoglienza, nelle regioni di sbarco dei migranti, soprattutto in Sicilia, centri nei quali dovrebbero essere trattenuti per due o tre giorni i migranti al fine dell’ identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali, aggiunge poi che coloro che si rifiuteranno di rilasciare le impronte potrebbero essere rinchiusi nei CIE, dove andrebbero condotti anche quei migranti che, una volta qualificati “migranti economici” con evidente “pericolo di fuga”, dovrebbero essere espulsi. A partire nel 30 settembre è entrato in vigore un Decreto legislativo che attua malamente una direttiva dell’Unione Europea e stabilisce il trattenimento negli stessi CIE di tutti coloro che hanno avuto respinta una domanda di protezione internazionale, anche se hanno fatto ricorso al giudice, qualora la polizia ravvisi, con la consueta discrezionalità, dunque presumibilmente in base allo stato di provenienza, un “pericolo di fuga”. Di fatto i due CPSA italiani, a Pozzallo (Ragusa) ed a Lampedusa sarebbero già stati trasformati in Hot Spot, e al loro interno sarebbero già in corso le identificazioni forzate con il concorso di funzionari dell’Agenzia europea Frontex.
Il 17 luglio di quest’anno giungevano a Lampedusa alcune decine di ragazze nigeriane, potenziali vittime di tratta, alle quali è stato immediatamente notificato un provvedimento di respingimento differito adottato dalla Questura di Agrigento e che, dopo alcuni giorni di trattenimento nel CPSA di Contrada Inbriacola, sono state trasferite nel CIE di Ponte Galeria, a Roma, ai fini del rimpatrio. Soltanto un forte impegno della società civile ha bloccato in parte il rimpatrio immediato, ottenendo la liberazione di alcune di loro, mentre altre sono state rimpatriate in Nigeria malgrado stessero arrivando i provvedimenti di sospensiva adottati dal Tribunale di Roma. Nel loro caso, oltre al trattenimento arbitrario a Lampedusa, si è aggiunto l’internamento in un centro di identificazione ed espulsione, senza la possibilità di fare valere effettivamente la richiesta di protezione che avrebbe dovuto sospendere le procedure di accompagnamento forzato in frontiera. Un caso ancora aperto, sul quale riflettere per comprendere quale potrebbero essere in futuro, le violazioni di leggi e regolamenti che potrebbero essere commesse nei nuovi Hot Spot che il governo italiano, su spinta delle autorità europee, dovrebbe attivare entro novembre. Nessuno ha ancora peraltro chiarito che cosa saranno e come sarebbero disciplinate per legge queste nuove strutture, nelle quali si dovrebbe comunque garantire il rispetto dei principi costituzionali che impongono una normativa precisa ( riserva di legge) ed un controllo giurisdizionale per limitare la libertà personale ( in accordo con l’art.13 della Costituzione) e la possibilità di fare valere effettivamente i diritti di difesa ( come stabilisce l’art.24 della stessa Costituzione).
Gli Hot Spot non potranno certo assolvere alla funzione di snodo di transito per i migranti che riconosciuti come profughi intendono proseguire il loro viaggio verso il nord-europa, come qualche fonte di polizia suggerisce. Il trattenimento amministrativo all’interno di queste strutture non si limiterà certo alle 48-72 ore previste nei documenti ufficiali. I numeri delle cd. “rilocazioni” dall’Italia verso altri paesi europei, già inseriti nelle risoluzioni ancora in corso di definizione a Bruxelles, sono molto più bassi del numero di persone che chiedono asilo in Italia, ed il sistema dei CIE, con appena 500 posti circa, in tutta Italia, non potrà essere ampliato come alcuni vorrebbero, istituendo almeno due o tre centri di identificazione ed espulsione in ogni regione. Oltre all’opposizione sociale che incontrerà l’apertura di un solo CIE, ci sono ragioni economiche che rendono irrealistico questo progetto. Si può dunque prevedere che l’Italia continui a violare quelle garanzie fondamentali che vanno riconosciute anche ai migranti cd.” economici” e che continuino ad arrivare sentenze di condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Ma soprattutto appare certo che il destino di migliaia e migliaia di persone in fuga da paesi nei quali hanno subito abusi gravissimi, dopo una traversata nella quale hanno rischiato la vita, finisca in un gigantesco tritacarne che produrrà scorie umane deprivate di qualsiasi dignità.
Di fronte a questa ulteriore involuzione del sistema italiano di prima accoglienza una responsabilità sempre più grande incomberà sulle associazioni e su tutti coloro che, operando anche all’interno di strutture e servizi pubblici, saranno coinvolti nelle attività di prima accoglienza. In tutte le città portuali di arrivo e nei centri dove saranno istituiti gli Hot Spot occorrerà vigilanza e capacità di pronto intervento e di denuncia, attraverso reti indipendenti di operatori sociali, esperti legali, giornalisti e medici.
Vanno bloccati i respingimenti collettivi che non garantiscono il rispetto effettivo dei diritti fondamentali della persona. Occorre adottare misure straordinarie, come quelle previste dal Decreto legislativo 2011/55/CE e dall’art. 20 del t.U. sull’immigrazione, previsti appunto in caso di afflusso massiccio di sfollati, norme peraltro già applicate nel 1999 ( crisi del Kosovo ) e nel 2011 (emergenza nord africa). Permessi di soggiorno temporanei e visti di transito costituiscono l’unica soluzione possibile per decongestionare il sistema di accoglienza italiano e favorire la mobilità secondaria verso altri paesi in condizioni di legalità. Deve chiedersi a questo fine la sospensione temporanea del Regolamento Dublino III verso l’Italia, come è stato fatto da molti paesi europei nei confronti della Grecia.
Occorre garantire sicurezza ed accoglienza ai minori non accompagnati che devono essere ospitati solo in strutture accreditate. La nomina dei tutori deve avvenire senza indugio e vanno creati albi di tutori volontari. Le potenziali vittime di tratta vanno identificate e monitorate anche nei centri di prima accoglienza, che non devono diventare luoghi di detenzione amministrativa. Le procedure di asilo vanno avviate immediatamente e non possono durare oltre due anni, come avviene attualmente. Occorrono procedure accelerate per tutti coloro che provengono da “paesi terzi NON sicuri”, come la Libia, l’Eritrea, l’Afghanistan, l’Irak e la Siria. Procedure che durino al massimo in sei mesi per il riconoscimento di uno status di soggiorno legale, o di documenti di transito per consentire i ricongiungimenti familiari superando le storture del Regolamento Dublino III. Deve cessare il ricatto che si pone durante molte audizioni di ragazze nigeriane nelle commissioni territoriali, alle quali si pone la possibilità di accedere alle misure di protezione internazionale solo se denunciano di essere vittime di tratta. Un metodo che ha già condannato al fallimento uno strumento innovativo come l’art.18 del T.U. 286 del 1998 ( il permesso di soggiorno per protezione sociale) e che adesso sta avendo come conseguenza il rimpatrio forzato di molte giovani nigeriane, sicuramente esposte al rischio di tratta, tanto nel loro paese quanto nei paesi di transito.
Vanno modificate tutte le politiche europee e gli accordi bilaterali, anche di riammissione, che tendono alla esternalizzazione del diritto di asilo ed alla collaborazione con i paesi terzi, per bloccare le partenze, anche da quegli stati caratterizzati da una dittatura militare o in mano a governi criminali, come nel caso del Sudan. E’ questa la direzione nella quale L’Unione Europea e l’Italia si muovono con crescente determinazione nell’ambito del cd. Processo di Khartoum, al fine dichiarato di combattere le reti di trafficanti ma in realtà per impedire che i migranti ed i profughi tutti possano attraversare le frontiere in Africa e nel vicino oriente, e quindi avvicinarsi ai confini europei. Si tratta purtroppo di indirizzi politici e di prassi applicate che si vanno realizzando al di fuori di una qualsiasi legittimazione parlamentare, a livello di accordi di polizia, sotto l’occhio attento degli ispettori di FRONTEX e degli agenti di EASO, l’agenzia europea che dovrebbe supportare i paesi dell’Unione maggiormente in difficoltà per l’elevato numero di arrivi e di richieste di protezione internazionale. In questa direzione è stata organizzata la Conferenza europea prevista a Malta il prossimo mese di novembre. La società civile organizzata ed i cittadini solidali sapranno rispondere a queste politiche di esclusione e di discriminazione. Giorno dopo giorno. A piccoli passi, siamo tutti in marcia e non ci fermeranno.