Punire chi fa i muri, sostenere chi fa i ponti

immigrazione_3_800militariungheresiaffiancanolapolizianellacostrNella stampa e nella comunicazione mediatica italiana e in parte anche europea, i tragici scenari che avevano come sfondo il Mediterraneo sono stati rapidamente sostituiti dalle colonne di persone in marcia sulla rotta balcanica, la Balkan Route, come ormai tutti la chiamano. Incontri fra i governi dei Paesi dell’ex Yugoslavia e dell’Est coinvolti – divisi fra libertà di transito e voglia di chiudere le frontiere – scene di mesto camminare, incedere in terreni oggi bagnati dalle piogge autunnali ma che presto saranno innevate. Il mare torna ogni tanto, inquadrature delle coste libiche, da dove si continua a partire e morire, o di quelle turche e greche, dove una violenza senza limiti unita alla leggerezza delle piccole imbarcazioni che debbono attraversare tratti limitati di mare, rendono ancora più ignobili alcune sciagure. Ma insieme a costruire reti e muraglie di filo spinato, oltre a maltrattare i profughi fino allo sfinimento ci sono anche soldati che si sentono autorizzati a sparare, in nome della difesa del sacro confine, verso chi quel confine intende scavalcarlo disarmato ad ogni costo. E c’è chi in nome di quel confine uccide, come accaduto in Bulgaria. Una linea politica che paga, i risultati delle elezioni polacche, dove la stracciante vittoria del Partito Nazional- conservatore, con i 73% dei voti, deve il suo successo tanto al richiamo anti euro quanto all’allarme immigrazione. I cittadini polacchi hanno votato in nome del fatto che i profughi portino le epidemie e quindi vanno respinti a qualsiasi costo. Hanno eletto, ironia della sorte, l’etnologa Beata Szydlo, nata nella città di Auschwitz che ha promesso di combattere l’immigrazione con un atteggiamento del tutto simile al collega magiaro Viktor Orbàn. La politica filo russa di quest’ultimo, impedisce per ora la nascita di un immenso “asse nero” che potrebbe attrarre nella sua orbita anche paesi più piccoli ed esposti ma pronti a innalzare frontiere. C’è già chi afferma che ad Est l’U.E. rischia di morire e non per l’ennesima imposizione economica ma per una politica miope e xenofoba.

In questo contesto i numeri sono importanti ma cambiano e crescono di giorno in giorno perché in Siria come in Iraq la guerra si fa sempre più letale, perché in Afghanistan si continua a morire, perché anche in Pakistan e Bangladesh si verificano conflitti silenti, perché la Turchia non vuole decidere per la pace ma per la persecuzione di profughi e cittadini di minoranze, kurdi, armeni, yaezidi. E a differenza delle rotte marine, che diventano proibitive in inverno per i natanti scalcinati a disposizione, i percorsi a piedi, in marce interminabili, non conosceranno interruzioni. In altri spazi bisognerebbe parlare di una inversione di rotta della politica estera dei paesi U.E. dell’assurdità di promuovere nuovi conflitti o aggravare gli esistenti per poi ritrovarsi con il risultato che è sotto gli occhi di tutti. In altri spazi parleremo dell’assurdità di poter semplicemente pensare di procedere a dividere richiedenti asilo da migranti per ragioni economiche, sulla base di una gerarchia delle sofferenze, degli interessi degli Stati, dell’esigenza di una guerra dei consensi giocata su chi è più bravo a cacciarne di più. Anche l’esame delle leggi di stabilità dei singoli paesi U.E. al vaglio degli organismi ademocratici che ne sanciscono la validità, avranno come fattore dipendente le politiche di contenimento dei migranti e la capacità di provvedere, con fondi europei, ai rimpatri per chi non è ritenuto utile o gradito.

Ma in questo breve e forse generico spunto si vorrebbe porre l’attenzione su altro. Una battaglia di lungo corso da combattere e che per ADIF è determinante. Non raccontare solo fotografando l’esistente, ieri i naufragi oggi le marce infinite. Non accomunare i volti sofferenti, gli sguardi di chi cerca la speranza e solo a volte la trova in una borraccia d’acqua in una minestra calda, in coperte per i bambini. Ma raccontare i perché, le responsabilità oggettive e concrete di chi contemporaneamente urla al disastro e con le proprie politiche lo determina. Raccontare l’assurdità di allarmi, soprattutto nei grandi paesi, per alcune decine di migliaia di persone che, anche se crescessero in maniera esorbitante resterebbero l’1% della popolazione europea, l’1%, non il 25% di persone ospitate alla meno peggio in Libano. Raccontare le scelte sciagurate che si vanno compiendo, che a Malta riguarderanno l’Africa, che nel frattempo, nelle tante riunioni straordinarie, riguarderanno il cuore dell’Europa. Raccontare di come destinando inutilmente risorse alla costruzione di barriere, alla militarizzazione esterna e interna del continente, si compia una scelta tanto inadeguata agli obiettivi prefissati, quanto capace di produrre dolore e morte, quanto soprattutto ottusamente priva di qualsiasi veduta di ordine tattico e strategico, anche in base alle logiche disumane che le governano.

E sarebbe l’ora che i governi europei che fanno la scelta di chiudere le frontiere venissero penalizzati, sanzionati, se il caso minacciati di essere espulsi dai contesti decisionali e politici. Una scelta che una politica complice e ossessionata dai propri errori economici e sociali che vengono reiterati, è incapace di fare, che non vuole fare, ma che quei movimenti sociali da cui proviene una ipotesi diversa di realizzazione dell’unità europea dovrebbero fare propri. Punire chi fa i muri, sostenere chi apre ponti, non per spirito solidale ma per una idea di futuro che poco interessa ai meccanismi di potere imperanti. Si è tentato di cacciare la Grecia perché non obbediva agli ordini della Troika, si impedisce al Portogallo di avere un governo democratico ma poco incline ad accettare i diktat mentre invece si soddisfano le pulsioni razziste in Ungheria come in Polonia o Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia, Macedonia e si cede al ricatto della Turchia. L’Europa non può e non deve essere questa.